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DEGLI DEI

OVVERO

PER IL FELICISSIMO PARTO

D'ELISABETTA AUGUSTA

IDILIO.

addove il Sol men temperato, e giusto

L Della più calda zona il cerchio accende,

E l'ardente Etiopia il lido adusto
Alla vasta Anfitrite in sen distende,
Del gran padre Ocean lo speco augusto
Nel più riposto sen l'onda comprende ;
Lo speco, onde il pastor dei marin gregge
Sulla fronte di Giove i fati legge.
Per l'ondoso cammin più mite il giorno
Giunge nell' antro florido, e felice,
Sovra il cui suol di verde musco adorno
L'orma stampare a mortal piè non lice.
Vivi coralli al vario sasso intorno
Stendon l'annosa lor torta radice,
E dai lor rami piacide, e tranquille
Cadon di dolce umor tacite stille.
Lo speco di conchiglie è in se distinto

Da man prudente in quella parte, e in questa ;
Ma l'artifizio, onde il valore è vinto,

La sua fatica altrui non manifesta.
Dai rami poi, di cui lo speco è cinto,
Pendon smeraldi, perle, e ciò che desta
Il Sol qualor nell' Eritree maremme
Il fresco umor dell' alba addensa in gemme.

Qui dall'eccelso suo trono stellato,
Donde moto alle cose ognor dispensa,
Giove dagli altri Numi accompagnato
Spesso discende alla fraterna mensa:
Allor depone il suo rigore usato,
L'ira sospende a nostro danno accensa;
Ma porta con la pace in un raccolto
Il primo imperio nel sereno volto.
Sovra candida nube un giorno assiso
All' onda d' Etiopia andar dispone,
E mentre intorno volge il regio viso,
Le procelle del mar frena, e compone.
Dal suo lato non va giammai diviso
L'augel ministro della sua ragione,
Che porta sempre nell' adunco artiglio
L'eterno stral, che di giust' ira è figlio.
Tutto ha d'intorno il fortunato stuolo,
Ch'alcun Nume altro cenno non aspetta ;
Fin Orion dall' agghiacciato polo

La minor Orsa alla gran pompa affretta:
Giuno discioglie ai suoi pavoni il volo,
Venere il freno alle colombe assetta,
Cibele al carro i suoi leoni aggiunge,
Cinzia i tardi giovenchi affretta, e punge.
Febo, reggendo ai bianchi cigni il corso,
Al lato appende la soave lira;

Marte, al Tracio destrier premendo il dorso,
Porta negli occhi il suo furore, e l'ira;
Lieo, volgendo alle sue tigri il mørso,
Con la bella Arianna il cocchio gira;
Vien con la clava il generoso Alcide,
E Palla, che Vulcano ancor deride.
Col volo intanto gli altri Dei previene
Il messaggier celeste, e al Ciel si fura;
Quei, ch' un di fe' col suon di chiare avene
Dell'occhiuto guardian la luce oscura.
Passa l'Eterea sede, e in parte viene,
Ov' è colui, che del tridente ha cura;
Espone il cenno a lui del sommo Giove,
Edi Numi del mar chiama, e commove.

Dalle concave grotte escono fuora
Veloci allor le Deità marine.

Teti non fa nell' antro suo dimora ;
Nereo vien con le figlie alme, e divine;
Glauco vi porta il tardo passo ancora,
Pel mar traendo il suo canuto crine;
Proteo, che 'l corso a crudo mostro affrena,
Il marin gregge al sommo flutto mena.
Delle Sirene vien la bella schiera,

Ch' alle sue danze il dolce canto accorda, Mentre Triton con l'aspra voce, e fiera Della buccina torta i lidi assorda : Nettun con faccia rigida, e severa Ai venti il flutto abbandonar ricorda, E fa solo restare in quelle sponde Zefiro, che scherzando increspa l'onde. Giove dal sommo Olimpo uscito intanto Vola da lato alla Montagna Idea, Ove lasciato Simoenta, e Xanto, Passa veloce in mezzo all' onda Egèa. Ma quando giunse alla Sicania accanto, Sull' orlo allor della fucina Etnea Il corsero a mirar Sterope, e Bronte. Col solo sguardo, che lor luce in fronte. Così del Cielo i Numi, i Dei del mare, Facendo intorno al sommo Rege un giro, Giungon' ove d' Etiopia il lido appare, E quivi giunti il corso lor finiro. A Giove l'onde più tranquille, e chiare Quinci e quindi divise il seno apriro. Ma poichè in grembo i sommi Dei racchiuse, S' uni di nuovo il flutto, e si confuse. Scendono uniti i Dei nell'antro ameno Che di luce novella ornar si vede, E qui con ciglio placido, e sereno Giove fra gli altri Numi a mensa siede. E mentre lor d' ambrosia il nappo pieno Ministrano le grazie, e Ganimede, Vulcan dell' armi al Dio fiero, e gagliardo Invia furtivo il sospettoso sguardo.

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T. IV.

Ma intanto ecco ne vien privo di lena,
Col crin per lunga età già raro, e bianco,
Saturno anch'egli alla gioconda scena,
Dall' Olimpo traendo il passo stanco;
Entra fra l'altra turba, e giunto appena
Lascia cader sulla sua sede il fianco;
Indi con un sospiro altrui fa segno,
Che si ricorda del rapito regno.
Tutti v' eran raccolti i fiumi insieme,
Che prestano a Nettun tributo, e culto.
Il Gange v'è, che nelle rupi estreme
Tien della dura Scizia il crine occulto;
Il Nilo v'è, che pria fra' sassi geme,
Al mar poi fa con sette bocche insulto ;
V'è l'Ibero, ed il Po, l'Eufrate, e 'l Tago,
E v'è Meandro del suo fonte vago.

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Mille altri fiumi al gran convito vanno,
Che troppo lungo il rammentarli fora.
Solo il Tebro, e 'l Danubio ancor non sanno
Romper la mesta lor tarda dimora:
Alfin temendo di più grave danno
S'essi non van con gli altri fiumi ancora
Alla gran pompa taciti, e dolenti
S'inviano anch'essi a tardi passi, e lenti.
Sorse il Danubio dal suo gelo antico,
El regio capo sollevò dall' urna
Indi se n' uscì fuor dell'antro amico,
Cui splende luce debole, e notturna ;
E passando dal flutto all' aere aprico,
Gode la face lucida, e diurna ;

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E mentre va, dal crin di canna ornato
Stilla l'onda or da questo, or da quel lato.

Il Tebro anch'ei dalla sua pura fonte
Uscì di secco alioro avvinto il crine,
E mesto alzò l'imperiosa fronte
Fuor delle maestose ampie ruine.

Giaccion nell'antro suo, del tempo all' onte,
Quanti adunaren l'aquile Latine,
Scettri, corone, e bellicosi segni,
E mill' altri di guerra infranti ordegni.

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Alfine ambo fermar l' incerto passo
Laddove è Giove alla gran pompa intento;
Ne van col volto così afflitto, e basso,
Ch' è della doglia lor chiaro argomento.
Il Tebro appoggia il grave fianco al sasso
E abbandona sul petto il bianco mento;
Fisso il Danubio il volto a Giove mira,
E spesso entro di se parla, e sospira.
Volgendo a sorte Giove il guardo eterno,
Vide esser giunti al suo divin convito
I duo gran Fiumi, a cui 'l dolore interno
Rendeva umile, e mesto il ciglio ardito:
I duo gran Fiumi, che superbo ferno
Il lor nome sonar di lito in lito.
Qual, disse loro, in giorno sì sublime
Cagion di doglia i vostri petti opprime?
Alza il Tebro la fronte a queste note,
Qual uom, che giaccia in alta quiete immerso,
Che se alcun suon l'orecchio gli percuote,
Apre il ciglio di sonno ancora asperso.
Tai ei dal suo pensier la mente scuote;
E poichè il ciglio a Giove ebbe converso,
Ruppe, mentre la voce al labbro invia,
Con un sospiro al favellar la via.
Come potrò, dicea, meco dolente
L'aspetto sostener di mia sventura,
Se il tenor del mio fato aspro, e inclemente
Ogni alimento di piacer mi fura?
Appena sorge in cielo astro lucente,
Che mel ricopre un' atra nube impura;
Appena il flutto, e la procella tace,
Che mi ritorna a disturbar la pace.
E pur non basta ancor se il ferro ostile

Di stragi, e morti le mie sponde ha pieno ;
Non basta ancor se dal furor civile

La mesta Italia ha lacerato il seno ;

Che de' miei giorni il rinascente aprile
Di tema il Ciel ricopre, e di veleno,

Con torre al pensier mio quel, che gli avanza,
Unico oggetto della sua speranza.

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