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De' tetti eccelsi, e di quant' alto il capo
Venga un coccio a colpir : con quanto peso,
Qualor dalle finestre avvien che cada,
Un monco vaso e fesso, o segni, o spezzi
Le selci istesse : onde passar potrai

Per uom mal cauto, e che non ben prevede
I repentini casi, altrove a cena

Se intestato ten vai: che tante morti
Pendon sul capo tuo quante in quell' ora
Vegliano al tuo passar finestre aperte.
E andrai fra te quest' infelice voto
Porgendo al Ciel, che qualche conca immonda
Sol di là su ti si rovesci addosso.
Se pien di vino un rompicollo il muso
Pria d'alcun non pestò, verso non trova
Onde dormir: su l' inquiete piume

Si volge or prono, ed or supino : ei passa
La notte che passò l'afflitto Achille
Quando perdè l'amico e andar gli è d' uopo
Con qualche rissa a conciliarsi il sonno.
Pur da costui, di gioventù, di vino
Quantunque caldo, insulto alcun non teme
Chi di porpora cinto, in mezzo al lungo
Quod spatium tectis sublimibus, unde cerebrum
Testa ferit, quoties rimosa, et curta fenestris
Vasa cadunt, quanto percussum pondere signent,
Et laedant silicem. Possis ignavus haberi.
Et subiti casus improvidus; ad coenam si
Intestatus eas, adeo tot fata, quot illa
Nocte patent vigiles, te praetereunte, fenestrae.
Ergo optes, votumque feras miserabile tecum:
Ut sint contentae patulas effundere pelves.
Ebrius, ac petulans, qui nullum forte cecidit,
Dat poenas, noctem patitur lugentis amicum
Pelidae, cubat in faciem, mox deinde supinus :
Ergo non aliter poterit dormire, quibusdam
Somnum rixa facit: sed quamvis improbus annis,
Atque mero fervens, cavet hunc, quem coccina laena
Vitari jubet, et comitum longissimus ordo:

Ordine di seguaci, al chiaro lume

Di numerose fiamme in bronzo accolte,
Si fa sgombrar le vie. Me, cui la luna

Suol esser guida, o un lumicin, ch'io stesso
Tempero di mia mano, a scherno ei prende.
Ma della zuffa sfortunata ascolta

Il proemio qual sia: se zuffa è questa
Ov' ei percote, ( e il sol percosso io sono. >
Ti si para dinanzi; innanzi a lui

T'impon che resti, ed ubbidir conviene,
E che altro far quando ti sforza un pazzo
Più robusto di te? Di dove vieni ?
(Grida insolente) chi d' aceto e fava
Chi ti gonfiò? Qual ciabattin col muso
Di Castron lesso, e porro trito ha fatta
Gozzoviglia con te? Nulla rispondi?
Parla, o t' affibbio un calcio. Ov' è palesa,
Di tua dimora il loco: in qual poss' io
Sinagoga cercarti? O parli, o taccia,
Lo stesso ti varrà: menan costoro
Sempre le mani, e al giudice sdegnati
T'accusan poi. Così libero in Roma
È il pover uom. Garontolato, e pesto

Multum praeterea flammarum, atque aenea lampas.
Me, quem luna solet deducere, vel breve lumen
Candelae, cujus dispenso, et tempero filum,
Contemnit : miserae cognosce proemia rixae :
Si rixa est, ubi tu pulsas; ego vapulo tantum.
Stat contra, starique jubet, parere necesse est :
Nam quid agas, cum te furiosus cogat, et idem
Fortior? Unde venis? exclamat : cujus aceto,
Cujus conche tumes? Quis tecum sectile porrum
Sutor, et elixi vervecis labra comedit?

Nil mihi respondes? Aut dic, aut accipe calcem.
Ede ubi consistas? In qua te quaero proseucha?
Dicere si tentes aliquid, tacitusve recedas,
Tantumdem est : feriunt pariter : vadimonia deinde
Irati faciunt: libertas pauperis haec est,

Prega, s'umilia: e molto fa, se ottiene Di ritornar con qualche dente a casa. Nè questo solo hai da temer: che quando Tutti gli usci son chiusi, e che per tutto Tace sbarrata ogni bottega; è pronto Già chi ti spogli: e un assassin talora Ti spaccia in un balen. Custodi armati Le Pontine paludi, e le foreste Guardan di Cuma: onde di là fra noi Corrono alla pastura. In qual fucina, Su quale incude ad apprestar catene Non si stancano i fabbri? È tanto il ferro Rivolto in uso tal, che ormai potrebbe Alle marre, alle zappe, ed agli aratri Dubitarsi che manchi. O fortunati Avi degli avi nostri ! O età felici Allor che sotto i Re, sotto i Tribunî Era un carcere sol soverchio a Roma ! Ben altre a queste accumular ragioni, E in gran copia io potrei ma intolleranti M' affrettano i giumenti: il Sol declina Verso l'occaso; e il mulattier fa cenno Pulsatus rogat, et pugnis concisus adorat Ut liceat paucis cum dentibus inde reverti. Nec tamen hoc tantum metuas: nam qui spoliet te Non deerit, clausis domibus, postquam omnis ubique Fixa catenatae siluit compago tabernae. Interdum et ferro subitus grassator agit rem. Armato quoties tutae custode tenentur,

Et pontina palus, et Gallinaria pinus.

Sic inde huc omnes tamquam ad vivaria currunt.
Qua fornace graves, qua non incude catenae?
Maximus in vinculis ferri modus, ut timeas, ne
Vomer deficiat, ne marrae, et sarcula desint.
Felices proavorum atavos, felicia dicas
Saecula, quae quondam sub Regibus atque Tribunis
Viderunt uno contentam carcere Romam.

His alias poteram et plures subnectere causas:
Sed jumenta vocant et sol inclinat ; eundum est.

Agitando la verga. Addio. Conviene

Che io parta alfin. Di me sovvienti: e sempre
Che, cercando ristoro, al tuo da Roma
Torni diletto Aquin; me dell' Elvina
Cerere all' are, ed alla tua Diana

Da Cuma appella. Io su que' campi algenti
In foggia militar verrò calzato:

E alle Satire tue prestar la mia

Potrò (se non la sdegni ) opra adjutrice.

Nam mihi commota jam dudum mulio virga
Innuit: ergo vale nostri memor, et quoties te
Roma tuo refici properantem reddet Aquino ;
Me quoque ad Elvinam Cererem, vestramquc Dianam
Convelle a Cumis. Satyrarum ego (ni pudet illas f
Adjutor gelidos veniam caligatus in agros.

FINE.

TETI, E PELÈO

Idilio Epitalamico, scritto dall' Autore l'anno 1766. d'ordine dell'Imperatrice Regina, allusivo alle felicissime Nozze delle Altezze Reali di Maria Cristina, Arciduchessa d' Austria, e del Principe Alberto di Sassonia, Duchi di Teschen.

IDILIO EPITALAMICO.

e d'Erato la lira

Sensi d'amor m'inspira,

Se il tragico coturno oggi abbandono,
Melpomene, perdono. A te, lo sai,
Tutti donai finora

Sin dalla prima aurora i giorni miei;
Ma i reali imenei,

Che, in rispettoso velo

Oggi ravvolti, a celebrar m' affretto,
Non soffrono l'aspetto

Di procellose.cure,

Di lagrime, d' affanni, e di sventure.
Deh, tu, da lungi almeno,

Assisti il tuo fedel: son troppo avvezzi

Fra i lampi del tuo ciglio

A infiammarsi d'ardire i miei pensieri.
Ah de' tuoi sguardi alteri

Se m' involi l'ajuto,

Se non veggo il mio Nume, io son perduto.
Presso alla chiara foce

Del fecondo Penèo, che adorno a gara
Coi zefiri cultori

D'erbe sempre e di fiori

Del Tessalo terren l'eterno aprile ;
Dall' atterrar le belve

Delle vicine selve un giorno stanco

Posava il molle fianco; e al mormorio

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