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Aveva a lato il Duce al Ciel si caro
Eugenio, onor de' bellicosi Eroi,
Quegli, il cui nome va temuto e chiaro
Dai Boristene algente ai lidi Eoi;
Quei, che col lampo dell' ardito acciaro
Fa strada, o Carlo, ai gran disegni tuoi;
E qualor la sua mano il brando strinse,
I tuoi nemici o volse in fuga, o estinse.
Alfin la Diva ai vanni il moto allenta,
Ed in chiuso giardin le piante posa,
Laddove stava a corre i fiori intenta
La celeste di Carlo augusta sposa.
Iri la mira, e disturbar paventa
Dalla dolce opra sua la man graziosa,
Tre volte per parlarle a lei ne venne,
E timida tre volte il piè ritenne.
Piucchè donna mortal, celeste Dea,
Mirandola si vaga, Iri la crede,
Che di Zeusi, o di Apelle opra parea
Dal biondo crine al ritondetto piede.
Le guance, e 'l petto d'un color tingea,
A cui l'avorio, e l'ostro il pregio cede,
E sotto i neri cigli il vivo sguardo
Volgea d'intorno a lento moto, e tardo.
Poi pensando, che grave esser potria
La sua dimora alla superna chiostra,
Lascia la tema, onde si çinse pria,
Iride, ed improvvisa a lei si mostra.
E dice, Augusta, a voi Giuno m'invia,
Per rendere immortal la stirpe vostra,
Con questo eterno nappo, il qual ripiano
Ha d'ambrosia celeste il cavo seno.
Questo liquore aduna in se la speme
D'Europa tutta, anzi del Mondo intero,
Che rimirar dopo il gran Carlo teme
Spenta la face del Romano Impero,
A cui germogli dell' Austriaco seme
Par che neghi finora il Ciel severo:
Ma in van questo timor sua pace oscura,
Che di stirpe si degna i Numi han cura.

Quando il felice suono, ed improvviso
Di queste note Elisabetta ascolta,
Da' porporini fiori alzando il viso,
Ad Iri il guardo, ed il pensier rivolta;
E aprendo i labbri in un piacevol riso,
Come colei, che da gran tema è tolta,
All'annunzio di ciò, che tanto brama,
Questi dall' imo petto accenti chiama.
E chi sei tu, che di sì vario lume
L'aria d'intorno, ed il tuo volto tingi,
E si diverse, e colorate piume,
Atte il cielo a trattare, al tergo cingi?
Sei vera Diva, oppur di qualche Nume
Al mio desir l'immagine dipingi?

Qual merto ho, che dal Ciel scendan gli Dei Per ministrar l'ambrosia ai labbri miei? Riprese allor la Diva; Iride io sono,

Di Giuno insieme e messaggiera, e figlia,
Che siede sotto il luminoso trono,
Ove Giove coi Fati si consiglia.

Questo per me liquor vi manda in dono
Giuno, la Diva candida, e vermiglia,
Per soddisfar de' popoli devoti,
Col vostro parto, agl' infiniti voti.
Dal tuo seno i mortali eterna prole

Di nuovi Semidei nascer vedranno,
I quai, per fin che in ciel s'aggiri il Sole,
In mano il fren dell' universo avranno,
E glorioso più di quel, che suole,
L'Austriaco nome risonar faranno,
Nè lasceran del Mondo ascosa parte,
Ove le glorie lor non siano sparte.
Vedrassi allor col vostro scettro unita
Un'altra volta l' Oriental corona,
Che a quella destra, che a voi l'ha rapita,
Per lungo tempo il Ciel già non la dona;
E la tua stirpe sua potenza ardita
La stenderà dove il gran Giove tuona;
E Giove stesso a i degni figli tuoi
Dividerà contento i regni suoi.

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DEGLI DEI

Vedrassi far dal sommo Ciel ritorno
La bella Astrea di giusto acciaro armata,
Lasciando delle stelle il soglio adorno,
Fra voi mortali, onde fuggìo sdegnata;
E 'l torbido furor con onta, e scorno
Fra i ceppi stringerà la destra irata;
E tornerà senz'ira, e senza sdegno
Del buon Saturno il fortunato regno.
Disse ; ed Augusta, che tai detti sente,
Sparge le guance di color di rose ;
Indi al labbro di porpora ridente
Del soave liquore il nappo pose.
Iri, ciò visto, il volto suo lucente
Fura ad Augusta, e nel fulgor si ascose
Per entro l'aria lucida, e serena,
Di se lasciando la sembianza appena.

LA MORTE

DI CATONE

Poichè fu il capo al gran Pompeo reciso,

Ed in Cesare sol concorse intero

Quel poter, che in due parti era diviso, La forza egli spiegò del propio impero Sull' Africo superbo, e sul Britanno, E sul Partico suolo, e sull' Ibero. E a Roma ancor piena di grave affanno Fu forza alfin la disdegnosa fronte Sotto il giogo piegar del suo tiranno. Fin nell' estremo la del Tauro monte Che con l'alta cervice al ciel confina, Rese le genti al suo comando pronte. Ma non poteo perciò l'alma divina Mai soggiogar di quel Romano invitto, Con cui morì la libertà Latina: Il qual, poichè restò vinto, e sconfitto L'infame Tolomeo, che contendea Alla bella Cleopatra il pingue Egitto, I mesti giorni in Utica traea,

Ove ripieno il cor di patrio affetto

ין

Di Pompeo l' aspro fato ancor piangea.
Nè per timor, che gli nascesse in petto,
Ivi n' andò ma sol perchè fuggia
Della Romana servitù l'aspetto.
E poi che udì che s'era già per via
Cesare posto, e con armate genti
Verso l'arena d' Utica venia 9

Volse, e rivolse i suoi pensieri ardenti;
Indi, chiamato il suo diletto figlio,
Questi spinse sul labbro arditi accenti.

A te lice schivare il tuo periglio;
Onde per ottener pace, e salvezza,
Che a Cesare ne vada io ti consiglio.
Ma la mia mente a rigettarlo avvezza
Oggi non dee lasciar suo genio antico,
Che l'ingiusta potenza abborre, e sprezza.
E ben degg' io, di libertate amico,
Meno la morte odiar di quella vita
Che ricever dovrei dal mio nemico.
Tu vanne, o figlio, ove il destin t'invita;
Che ciò, che all' opre tue sarà virtute,
Sarebbe infamia per quest' alma ardita;
La qual non dee, con dimandar salute,
Di Cesare approvar l'ingiusta voglia,
Ch'altrui morte minaccia, o servitute.
Nè tanto apprezzo questa frale spoglia
Ch' abbia a legar, per dimorare in lei
Quel libero desio, che in me germoglia.
Nè del nome Roman degno sarei,

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Se giunto al fin di dieci lustri ormai, Non finissi costante i giorni miei. Io, che ho del viver mio già scorso assai, So ch'incontrar quaggiù l'uomo non puote, Ch' interrotte dolcezze, e lunghi guai. Mentre sciogliea la lingua in queste note, Piangeva il figlio, é con afflitto volto Tenea nel genitor le luci immote. Ed egli intanto a un servo suo rivolto, Recami il ferro, disse: il figlio allora Scosse il pensiero, in cui stava sepolto. E forte grida; ah non recate ancora Il ferro, o servi, e tu padre pietoso, Interponi al morir qualche dimora. Catone il torvo ciglio, e generoso

Ver lui rivolse, e dal turbato cuore Trasse questo parlar grave, e sdegnoso : S'oggi non v'è per me scampo migliore, Che debbo attender più? Che giunga forse E mi trovi sua preda il vincitore? Tomo IV. 7.

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