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La pace di Torino del 1381 aveva riconosciuta la indipendenza di Trieste dai Veneti e dai Patriarchi di Aquileja, Trieste era veramente ciò che allora si diceva Repubblica Signora di se medesima, e come Repubblica si dava in sudditanza alla Serenissima Casa, con quella forma di reggimento che appunto aveva allora. Il Duca aveva il diritto di nominare il Podestà, ma volle poterlo nominare a vita, anzi che a periodi di un anno, come prima si voleva. I principi Austriaci nominarono a Podestà con titolo di Capitani illustri soggetti insigniti di altre e maggiori cariche, che del minuzioso reggimento di piccolo comune non avevano la volontà e le conoscenze. Fino dal primo darsi alla Serenissima Casa, aveva Duca Leopoldo provveduto per due Vicarî l'uno pel civile e l'altro pel penale, e questi erano Vicarî del Capitano e però Vicarî nati e non nominati; la nomina era del Consiglio. Il Capitano aveva bensì il diritto di nominare un suo Luogotenente, ma essendo il Vicario Civile naturale Luogotenente del Capitano, in casi temporanei solevano i Capitani nominarli Luogotenenti. I Capitani poi venivano all'ingresso del loro officio, per pigliare il possesso della carica e ricevuto il bastone dal Consiglio, prestato al Consiglio il giuramento di fedeltà al Comune e di osservanza dello Statuto se ne andavano, di che poi non erano contenti i Patrizi, e ne avevano fatto reclami al Duca, minaccie ai Capitani pretendendo che stassero a residenza, anzichè alla Corte, o come era solito, nel Castello di Duino, e giunsero fino a sospenderne le paghe; ma l'uso era frequente in altre provincie austriache di cariche meramente titolari, l'esercizio degli officî dandosi ad altri. I patrizî si addattarono, e trovarono miglior conto nel Vicario Civile nominato e pagato da essi loro, che durava un solo_anno in carica, e che avrebbe potuto essere o confermato o rieletto. E per tali cose i Patrizi furono veramente i padroni di Trieste, e quel potere sì facilmente accresciuto per l'assenza ed inazione dei Capitani fu esercitato con prepotenza e con modi violenti, fino dal principiare del Reggimento sotto i Principi Austriaci. La dedizione era stata ocsasione di malumori, dei quali non siamo giunti a conoscere l'indole, bensì abbiamo saggio della estensione in ciò che i bandi e le morti non furono risparmiate; e contro il clero si inveì talmente nel 1384 che l' Arcidiacono de Dominicis il primo officiale del Vescovo fn appeso alle forche, altri vennero trattati come refrattari.

III.

IL POTERE DEL CONSIGLIO SI CONCENTRA NELLA BAÍLIA: ONNIPOTENZA DI QUESTA, SUO FINE.

La dominazione temporale dei Patriarchi d' Aquileja vergeva al suo termine, il governo era debole, e male gradito, non già perchè ecclesiastico, che d' ecclesiastico non v'era che il nome, tutte le cariche ed anche le somme essendo in mano di laici, ma perchè agitatissimo per le elezioni di Patriarchi stranieri ora da Francia, or da Germania, or da altrove, per la incertezza delle elezioni quali fatte dal Capitolo, quali dal Papa, quali da Potentati, per cui non sapevasi quale fosse il legittimo, ed ognuno pretendeva di esserlo, per li partiti che le città cd i nobili prendevano chi per l'uno chi per l' altro degli eletti, per la prepotenza dei maggiori feudatari, e per l'inerzia del massimo, il Goriziano; per le armi unghere che venute a sostenere il patriarca trattavano l'amico come il nemico. Soffiava in questo incendio il veneto Leone mostrando ai Comuni sicurezza contro potenti baroni, sapienza di leggi, libertà di reggimento municipale, vivere più franco e lieto; mostrava ai Feudatari una costituzione che avrebbe dato parlamento in cui i nobili avrebbero seduto in numero certo con voto libero, con deliberazione di collegio a maggioranza di voti, provvedendo come membri del Principato alla felicità della provincia. Nè di Prelati, nè di interdetti, nè di scomuniche avea timore il Leone alato, pratico come era nel maneggiare di Bolle e di Brevi, a suo modo. Il Principe veneto preparavasi di poggiare colle armi i moti dei Friulani, pigliando in signoria gli stati del Patriarca. Il Duca d' Austria ne aveva avuto avviso, chè indifferenti non potevano essere a lui questi moti, perchè la Contea d'Istria nella sua massima estensione con Visinada, Torre, Piemonte dal lato dell' Adriatico, con Barbana dal lato del Carnero, confinavano con paesi tenuti dal Patriarca siccome Albona e Pinguente; i duchi stessi erano vassalli del Patriarcato; i Conti di Gorizia vassalli del Patriarca e sulli stati dei quali i duchi avevano l'aspettativa di successione potevano oscillare, e fare ciò che poi fecero, riconoscendo la Repubblica veneta in alto Signore del Goriziano, e ricevere da lei

l'investitura; un pericolo sovrastava, sia per conquiste di Veneti, sia per le bande dei partigiani del Patriarca, che avrebbero potuto raccogliere per se i brandelli di quello stato, sia per gli Ungheri che venuti in soccorso del patriarca Tech avrebbero potuto tenere per sè qualcosa; gli Ungheri assai più tardi fecero mostra di avere diritti sull'Istria su Trieste per gli ajuti dati al Patriarca, il quale, ungherese, si volle avesse fatta loro cessione delli diritti suoi al Principato. Trieste non poteva essere indifferente a quei moti, perchè cedendo Muggia ai Veneziani, li avrebbe avuti ad immediati confinanti, e potevasi temere un colpo di mano, venisse dai Veneti, venisse dagli Ungheri, o da altri. Giunse ordine a Trieste dal Duca di stare sulle guardie, di rinforzare le mura, e di prepararsi, divieto assoluto di venire ad offese. Proposta la bisogna in Consiglio (che anche i decreti del Principe si ballottavano) provvedute armi ed armati, conciate le mura e rifatte ove occorreva, venne instituito un Magistrato speciale sotto nome di Baília o Balía, pei pieni e sciolti poteri che aveva, eletto dal Consiglio dei Patrizi, in persone che erano patrizie e membri del Consiglio.

Siffatto Magistrato componevasi di sei Sapienti da eleggersi, e dei Giudici in carica, ed avrebbe avuto plenipotenza di fare, ordinare e procurare tutte e singole le cose che a loro sarebbero sembrate utili pel bene e per la conservazione dello stato di Trieste, della città e del territorio. E quanto fosse per essere fatto, deliberato e provveduto dalla Baília a maggiorità di voti, abbia ad essere fermo ed immutabile, nello stesso modo come fosse fatto dall' intero Consiglio maggiore dei Patrizi, investiti come erano di podestà e libero arbitrio.

Questa Baília, onnipotente, doveva durare soltanto per quattro mesi, instituita come fu, unicamente pei casi di novità, e pel pericolo di guerra. Furono membri di questa Bailia, Ambrogio dell' Argento, Nicolò de Adam, Messalto dei Messalti, Giovanni de Bonomo, Antonio de Vedano, Giovanni de Tefanio, Giudici erano li Cristoforo de Burlo, Zorobabele o come lo dicevano anche Roba de Leo, Lazzaro de Basilio, tutto fior di patrizi, meno il Vedano che era famiglia del 1300 non più antica.

Ma i casi temuti tirarono in lungo, la occupazione del Patriarcato tirò in lungo e la Bailia ebbe occasione di durare oltre il tempo preveduto. Diremo di lei che prima sua cura civile fu di aprire libro nel quale dovevansi registrare tutte le deliberazioni prese dal Consiglio, registrare tutte le persone che entravano in Magistrature ogni quadrimestre, e ciò dicevano di fare ad imitazione dei Romani antichi, dai quali pretendevano discendere; gli atti della Bailia si tenevano separati. Ordinato loro dal Duca d'Austria di tenersi sulla perfetta neutralità, si posero in figura d'importanza, richiamarono i banditi, raccolsero genti, nelle trattative di pace fra Veneziani e Sigismondo Re d'Ungheria che sosteneva il Patriarcato, Trieste fu luogo ove convennero gli ambasciatori per trattare di pace; più tardi quando rotte le tregue ricominciò la guerra, Trieste vietò ai proprî di servire in guerra tutte due le parti contendenti; nata sommossa nel distretto di Montecavo per tutta pena a quei villici ribelli, li consegnarono al Duca affinchè li dasse in custodia al Vicedomo del Carnio, a ciò provassero la differenza dall' essere sudditi della alma città di Trieste, e l'essere sudditi di altra provincia a modo feudale.

Opera di questa Bailia si fu la compilazione delle Leggi Statutarie di Trieste, servendosi dell' assistenza del valentissimo Giure consulto Pavese, Dr. Agostino d'Ozola e li faceva tradurre in italiano volendo che sieno compresi dal volgo; ma le interminabili questionerie degli avvocati, fece sì che poco dopo si cassasse la traduzione, volendosi autentico il solo testo latino. Dei quali statuti è fatale la perdita del primo libro nel quale contenevansi la forma di governo del Comune di Trieste, senz'altro modificata dopo la dedizione con aumento dei poteri del Consiglio e dell' ordine patriziale. Pur troppo deve dirsi irreparabile la perdita. Era nei destini che quei libri andassero a male. Nel 1447 Guido dei Pagliarini insigne Giureconsulto riminese, posto in sindicato, cioè a dire sottoposto a processo per riconoscere se certa sua sentenza civile fosse giustamente pronunciata, s'appigliò al partito di bruciare il libro in pergamena, pel quale delitto venne condannato alla pena di morte sulle forche; però egli non aveva atteso in Trieste la sentenza e quando fu pronunciata, respirava altra aria. Gli statuti furono ricopiati da altro esemplare che avevasi; nell' occupazione veneta del 1509, passarono a Venezia quale trofeo di guerra, furono reclamati, ricusati, ricuperati, servirono a materia delle riforme di Ferdinando I, nè più di loro s'ebbe contezza. Una copia in carta bombacina che riconosciamo scritta di carattere del Giovan Daniele de Marcatelli padovano, ascritto fra i Patrizi di Trieste, serviva per assenso di Massimiliano Imperatore, in supplemento all' originale che era in Venezia, ma non conteneva che il libro II e III i quali trattano del gius e del procedimento civile, e del gius penale, esemplare divenuto superfluo dopo il ricupero degli originali e dopo la Riforma Ferdinandiana. Quali vicende abbia poi avuto quel libro, l'ignoriamo; nel 1848 ci fu offerto l'acquisto. Porta le impronte di essere stato svolto assai, ed in margine sono annotati alcuni canoni di giurisprudenza ignota alli Statuti, e che venivano in rinforzo dell' autorità imperiale.

La Baília crebbe i suoi poteri, specialmente a carico dei Vescovi, dei quali era gelosa non ritornassero alle antiche giurisdizioni. Estinta la casa dei Vinchumberg feudatari del vescovo, pretese caducato a se anzi che al vescovo quel feudo, ed armata mano lo prese in possesso. Volle che i vescovi deposto il titolo di Conti di Trieste, usassero all' invece quello di cittadini. Morto nel 1416 il vescovo Nicolò de Carturis, prese in possesso i beni del vescovato, dichiarò officiali del Comune gli amministratori vescovili, e pretese il diritto di presentare all'elezione del Capitolo la persona che voleva a Vescovo, nè fece alcun caso della scomunica pronunciata, dalla quale facilmente fu liberata. (In prossima città abbiamo potuto vedere come allora si procedesse: scomunicata ed interdetta dal clero la città, la città interdiceva il clero ; pena gravissima a chi gli recasse acqua e legne, a chi gli dasse viveri, e sopra tutto a chi andasse a lavorare le terre dei chierici). Si ordinò che nessun giudice potesse pronunciare in quelle materie delle quali avessero disposto li Statuti, ancorchè per la giurisprudenza di allora fossero di competenza del giudice ecclesiastico. Nominatosi dal Papa il Vescovo di Trieste, la Bailia lo ricusò e vuol quello proposto da lei, per cui schiamazzi, disordini, interdetti, scomuniche, alle quali si cedè per ritornare alle questioni in miglior occasione.

Nè meno impetuosa e briaca di potere si mostrò la Bailia verso

singole persone amministrate e verso li stessi nobili patrizî; arresti, appiccamenti, bandi. Nel 1419 si diè fuoco alla Vicedominaria, ignorandosi da chi nè per quale motivo. (Si avvicinava il tempo che dovesse avere fine). Ad un tale che dicevasi ingiuriato e minacciato di vita da tale altro, si diè licenza di ammazzarlo. Sembra in vero strano che la Bailia essendo emanazione del Consiglio medesimo, e rinnovata di quadrimestre in quadrimestre, potesse durare per tempo lungo in tanta onnipotenza, in tanta auge e farsi superiore ad ogni legge ad ogni ordine del Comune, ma la cosa era ormai di partito, ed il partito dei Bailisti era trionfatore, il solo principe poteva darvi termine ed impedire che finisce in guerra civile. E Federico lo fece. La Bailia aveva dannato al bando tre patrizî, Giusto Petazzi, Orobono, o come per vezzo si diceva Boncino de Belli, e quello stesso Antonio da Vedano, che fu dei primi della Bailia, espulsi tutti e tre dal Consiglio. Richiamatisi al Duca, e fatte a lui patenti le cose, veniva ordine al Consiglio di richiamare i banditi, di cassare le sentenze, e di riporli in Consiglio. Il Consiglio deliberò, e come sembra l'appoggio del Principe diè coraggio a quelli del Consiglio che della Bailia avevano più timore che propensione; le sentenze furono casse, il bando revocato, gli espulsi vennero riabilitati. La quale revoca portava colpo mortale alla Bailia; si chiese dagli avversi a questa che il Principe la sciogliesse, e venne il decreto; ma come era pratica allora, il decreto fu argomento di discussione del Consiglio, la Bailia si dimenò come belva che si vede attaccata da cani, ed ai quali non poteva fuggire; fece, come oggidì si direbbe capitolazione salvando la vita, incendiando armi, bagagli ed archivi. Ma quegli odî non cessarono allora, rimasero fuoco sotto alla cenere, che divampò più tardi come vedremo, ed al grande incendio erano presenti ed attori e vittime parecchi di quelli che erano stati della Bailia, o contro di lei. La deliberazione del Consiglio è atto tale che merita di essere registrato.

Nel Palazzo nuovo del Comune, in pieno Consiglio maggiore ecc. I Giudici del Consiglio in forza del potere dato loro dal Consiglio di fare la proposizione che fanno, propongono pel bene e per la pace e per la conservazione di quest' alma città, la cassazione del Collegio detto della Bailia con tutti e singoli li statuti addizioni e provvisioni fatte da esso collegio, e aggiunte nel loro capitolare, e che se qualcuno volesse riproporre la Bailia cada nella pena di morte. E tanto propongono affinchè in quest' alma città e fra i cittadini possa durare l'unione, l'amore, la pace, e sieno evitati li tanti scandali provenuti da quel collegio, come tutti sanno.

Però a condizione:

I. Che le sentenze fatte finora debbano durare valide, eccetto quelle contro Orobono de Belli, Giusto de Petazzi ed Antonio de Vedano, che il Signore nostro ha ordinato sieno revocate. Le altre condanne pronunciate rimangano valide, però i condannati abbiano facoltà di fare e disporre dei loro beni e delle loro cose come a loro piace, in tutto e per tutto come avrebbero potuto fare prima delle condanne.

II. Che le persone le quali presero parte alla Bailia, non azzardino rivelare in nessun tempo od in modo alcuno per se o per altra persona, e nemmeno memorare qualcosa che sia stata detta o`trattata nel collegio sovradetto sotto pena di spergiuro e di cento libre di piccoli,

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