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ma queste devono presentarsi nella via regolare al Magistrato, il quale le esaurisce conforme lo trova opportuno e le rimette al Consiglio comunale nei casi preveduti dal presente regolamento.

§ 22. Il Processo verbale di ogni seduta del Consiglio comunale viene tenuto da un Impiegato a scelta della Presidenza magistratuale facendosi riportare in esso l'oggetto della proposizione, ed i pareri dei membri presenti, che vengono dalla Presidenza invitati a votare.

Qualora nella votazione sia stata proposta qualche emenda della proposizione primitiva, può questa divenire oggetto di apposita deliberazione. È libero eziandio ad ogni membro di esporre il proprio voto in iscritto, e d'inserirlo addizionalmente nel processo verbale, ritenuto che perciò non rimanga arrestata la discussione.

§ 23. Nella chiusa del processo verbale è da indicarsi succintamente il conchiuso risultante dalla maggiorità dei voti, con osservare, se abbia avuto luogo la maggiorità assoluta o relativa, ovvero parità di voti; in quest'ultimo caso il voto della Presidenza è decisivo.

II processo verbale viene sottoscritto dal Preside, dai Consiglieri comunali presenti, e dall' estensore di esso; se è composto di più fogli dovranno questi essere uniti, ed assicurati col sigillo civico, in fine lo si rimette all' I. R. Magistrato per l'ulteriore esaurimento. L'estesa del concluso può anche essere assegnata ad una redazione apposita.

§ 24. Avenendo la convocazione del Consiglio minore, esso si unisce in regola egualmente in seduta coll' I. R. Magistrato i membri del medesimo votano dopo gli Assessori magistratuali, con voto decisivo, in guisa che formano soltanto un aumento del coleggio magistratuale.

§ 25. Il Magistrato può peraltro anche rimettere per iscritto un oggetto al Consiglio minore, il quale in tale caso si raduna separatamente sotto il Preside eletto dal Consiglio comunale.

La votazione e tenuta del Processo verbale hanno luogo analogamente a ciò che fu di sopra indicato per il Consiglio comunale.

§ 26. Il membro della rappresentanza che lasciasse d' intervenire alle radunanze del Consiglio comunale senza addurre ragione bastevole per giustificare la sua assenza, verrà per la prima e seconda volta ammonito dall'I. R. Magistrato, in caso di terza recidiva si procederà riguardo al medesimo con applicazione al §. 10. litt. d. Il membro del Consiglio minore, che lasciasse in simile guisa d'intervenire per tre volte alle rispettive radunanze, perde soltanto la qualità di membro del Consiglio minore, non quella di Consigliere comunale.

§ 27. Per la validità delle deliberazioni del Consiglio comunale si richiede la presenza di almeno trenta membri. Nella votazione non si ha riflesso agli assenti.

§ 28. Le disposizioni di minore entità concernenti il maneggio, e l'ordine degli affari spettano alla Presidenza, il Consiglio comunale non avrà peraltro uffizj propri, nè sussidiarj.

Furono allora eletti a membri del Consiglio i seguenti

de Baseggio Dr. Giovanni

Bazzoni Gracco

Biasoletto Dr. Bartolomeo

Bousquet Giuseppe

Brambilla Giuseppe

de Brigido conte P., PATRIZIO

Eckhel G. G.

Brucker L. M.

Coen Matteo

Cozzi Pietro

Falkner Francesco
Fontana Carlo

Gradina Agostino

Goracuchi Dr. Alessandro
Grazia Avv. Pietro
Hagenauer Giovanni
Hierschl Moisè

Holzknecht Francesco

Ivanovich C. Matteo
Karis Antonio
Millanich Carlo

Marenzi B. G. (non accettò)
Napoli Luigi
Panzera Cav. Pompeo

Parente A. I.
Pertsch Nicolò

Pico Dr. Bernardino

Platner Dr. G. Corr., PATRIZIALE de Prandi Giacomo, PATRIZIALE Ralli Ambr. di Stefano

de Reyer Fr. Tad., PATRIZIO de Rossetti Dr. Domenico, PATRIZIO, cav. della Corona

ferrea

de Rosmini Dr. Giov. Battista
Rusconi G. Antonio

Sartorio Giov. Gugliel., PATRIZIALE
Schwachhoffer Cristiano
Stecher Francesco

Valle Valentino

Vicco Antonio, PATRIZIALE
Wram Antonio

Rossetti, in omaggio al caldissimo amore per Trieste, onestissimo come era, fu nominato a Preside, rieletto in ogni anno fino a che visse. Nel quale officio, ancorchè non consentaneo alli suoi convincimenti si tenne alla nuova legge e ogni sforzo usò a completarla, volendo ordinata la cittadinanza, ed introdotta disciplina e forma interna; nel che ebbe lo sconforto di vedere le sue proposte se non ricusate, deviate.

Entrarono nel Consiglio Ferdinandiano tre Patrizi intendiamo tali i membri del Consiglio patriziale; quattro patriziali, cioè di famiglie state patrizie.

E qui dovressimo deporre la penna, compiuta avendo la narrazione delle vicende del Patriziato; sennonchè ci sembra udire la domanda da quelli che in Trieste non vivono, cosa avenisse degli individui Patrizî, e quali vicissitudini avesse il Municipalismo dallo Statuto Ferdinandiano in poi, e sembra naturale in noi il debito di appagare si ragionevoli domande.

I Patrizi visto che il tempo loro era compiuto (e lo viddero fino dall' ultimo scorcio del secolo passato), vistasi sbarrata la via degli impieghi, e dei benefizi di chiesa, si rassegnarono della rassegnazione di chi vede inevitabile la morte; la milizia, loro gradita occupazione, lasciava sempre aperte e non contrastate le fila, ed in questa entrarono. Abbiamo potuto contare fra i patrizi militanti un maresciallo, il Bonomo, tre generali, sei colonnelli, molti officiali graduati nella marina di guerra, nella cavalleria, nel genio, nella fanteria; pochi negli impieghi civili, nessuno nell' alto clero.

Il Consiglio Ferdinandiano durò fino al di 23 Marzo 1848, rovesciato dalle irruenti precipitose novità; il Preside ancorche deposto di quel Consiglio recavasi inviato dalla popolazione in Innsbruck a manifestare di viva voce nel 21 Maggio 1848 allo Imperatore la fedeltà e le affezioni del popolo triestino.

Al Consiglio Ferdinandiano venne surrogata Commissione costituente, eletta a voto universale. Nessun patrizio, nessun patriziante, due soli triestini vi vennero ammessi. La quale poi ristabili lo Statuto ul

timo, introdotta l'elezione di popolo dei Consiglieri, alzato il numero dai 40 ai 48, come crediamo in memoria di quell' anno.

Il Consiglio dei Quarantotto durò anche entro il 1850.

L'Augusto FRANCESCO GIUSEPPE dava lo statuto segnato il dì 12 Aprile 1850, portando il numero di Consiglieri a cinquantaquattro, aggiunti sei distretti del territorio. Del quale statuto è memorabile che ammettesse in Consiglio soltanto gli austriaci, dasse al Comune il titolo araldico di città, designasse futura cittadinanza, introducesse la cittadinanza d'onore, e pronunciasse la emancipazione di Trieste del Litorale, che fu il desiderio dei Patrizi.

Nel Consiglio ricomparvero genti patrizie, e furono il Barone de Reyer, il nobile de Platner, il Cavaliere de Vicco, il Cavaliere de Sartorio; mentre scriviamo, vi entrava il Barone de Burlo. In questo Consiglio entrarono cinque che furono del Ferdinandiano, sette della Costituente, dicianove del Consiglio popolare. Nessun Consiglio ebbe mai in Trieste, onori maggiori, in nessuno il numero dei nobili fu in proporzione maggiore, in quello del 1808 ogni quarto consigliere, in quello del 1850 ogni terzo; nessuno dei cognomi di nobili del 1808, figura oggidì, se ne eccettuiamo il Barone de Burlo.

Nel 1850 scioglievasi la Borsa, instituzione durata ottantaquattro anni, calcolandola instituita nel 1776 in forma di patriziato mercantile, che ebbe breve sospensione durante l' interregno, modificazione nel 1848. In suo luogo venne la Camera di comercio, arti, industria, ma il nome di Borsa fu conservato in frazione della Camera.

Abbiamo dato i nomi dei Consiglieri municipali che nei varî tempi sedettero nei Consigli; ci corre debito di dare anche di quelli che al Comune presiedettero, però ci limiteremo a quelli che nel Magistrato tennero presidenza a vita, dacchè i triumviri che duravano quattro mesi in carica, esigerebbero fogli interi di stampa.

1732.

Giudici Regi ed insieme Vice-Presidenti del Consiglio patriziale
(il Presidente era il Governatore).

Gabriele barone de Marenzi.

1743. Giulio barone de Fini.

Presidi del Magistrato.

1768. Giulio Cesare dalla Porta.

1771.

Aldobrando de Stanchina.

1776. Carlo Lodovico conte de Soardi.

1791. Ferdinando barone dell' Argento.

1803. Giovanni Battista de Pascotini, poi barone.

1805. Ignazio cavaliere de Capuano.

1809. Federico de Ossezky, interinale.

1812. Carlo de Maffei, maire.

1814. Francesco de Costanzi, interinale.

1814. Floriano barone de Longo, interinale.

1814. Ignazio cavaliere de Capuano.

1826. Dr. Pietro de Buzzi.

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La sera del dì 30 Novembre 1842 corteggio funebre moveva dalla penultima isola di case a mano diritta del Canale grande, e traversando la città tutta dirigevasi al duomo. Era la bara portata a mano da bassi officiali della Civica, sulla bara stavano un cappello piumato a bianco, la decorazione della Corona di ferro, le insegne di consigliere di Governo, gli stemmi nobili del Casato. Seguivano la bara il Preside del Magistrato, gli Assessori, il Consiglio Municipale, l'officialità della Civica, la Minerva, persone distinte per nascita, per ricchezze, per condizione sociale, per dottrina, per virtù; faceva codazzo popolo numerosissimo. Le vie ove passava il corteggio erano parate a mestizia, la residenza della Minerva parata a pieno lutto, epigrafi ne manifestavano il dolore. Entro quel feretro riposava uomo di media statura, di nobile faccia, di alta rilevata fronte, calva la sommità del capo, pendenti a chioccie i bianchi capelli rinversati all' indietro; sotto abbondanti palpebre stavano chiusi modestamente gli occhi al sonno eterno, composta la bocca a tranquillità; non però così che celasse antico profondo dolore, non di morte; la bocca sembrava voler esprimere le parole che ultime aveva scritte nel testamento: rassegnato alla volontà di Dio, tranquillo nell' animo, abbandono il mondo, implorando ed augurando ai posteri età migliore di questa in cui io vissi. Ed all' attitudine della bocca composte erano le braccia, giunte le mani in atto di uomo che prega, e fra le mani, quel segno benedetto nel quale sperava e speriamo eterna salvezza. Indossava abito rosso a pettorina bianca, bianchi il collare e le rivolte, all' estremità dell' abito l'arma della città; spallini d'oro agli omeri, calzoni bianchi corti, calze, scarpe con fibbie d'oro.

Quel corpo esanime era la spoglia mortale di Domenico Rossetti, l'abito posto indosso era quello di Patrizio di Trieste, con lui scendeva nella tomba in S. Anna l'ultima speranza, l'ultima insegna del Patriziato triestino.

Mentre era in vita desiderava di essere sepolto nel vecchio cimitero presso al duomo, ma nol concedendo le leggi, nè per modestia avendo voluta chieder esenzione ad altri concessa, si era addattato a riposare in S. Anna, sperando che le ossa verrebbero quandochessia trasferite a S. Giusto.

Deposto che fu, ebbe gli onori di ripetute laudazioni, fu a lui decretata la corona civica e medaglia, prosaisti e poeti lo celebrarono. I vecchi patrizî laudandone l'intenzione deploravano che tanta fatica tante cure avesse speso per rifare un corpo che aveva sorvissuto a se medesimo, che da lungo era morto nella pubblica opinione, che se anche avesse avuto il coraggio, non aveva le forze a lottare contro il sistema di reggimento pacificamente attivato.

I novelli lo laudavano per lo operare continuo diretto a preservare le antiche franchigie (pecuniarie e doganali s' intende), e gli perdonavano ridecchiando la volontà di ripristinare il Patriziato. La plebe alla quale, ove non sia aizzata, sono sempre in grandissima estimazione il sapere e la virtù, pregava pace a lui, e faceva lagni per la perdita di un grand' uomo.

Nella tumulazione del Rossetti tutti piansero il caldissimo amatore di patria, il probo, l' operoso, il sapiente, nessuno pianse il patriziato che con lui seppellivasi. Per non mai più risorgere? - Ai

venturi la sentenza.

CONCLUSIONE. I FRAMMENTI

Ci corre obbligo or che della vita del Consiglio dei Patrizi abbiamo compiuta la narrazione, di indicarne i frammenti tuttora duranti.

E primo fra questi diressimo essere quella alabarda che antica credenza ritiene caduta dal cielo sulla piazza maggiore per opera miracolosa di S. Sergio protettore di Trieste; quelÎ'alabarda che custodita fra le sante reliquie nel duomo, si vuole per virtù sovrumana esente dalla ruggine; sovrapposta ai pinacoli delle chiese e dei palazzi pubblici; quel segno che ai fanciulli davasi a baciare, tanto sacra e santa doveva essere la patria; quell'alabarda che Federico III. in premio di fedeltà accordava aurata da ferrea od argentea che era dapprima; che si colloca ancora al seggio del Podestà e lo precede nelle pubbliche ambulazioni, che fino a poco si vedeva sui suggelli dei Tribunali e dura nei suggelli della Magistratura, e degli Offici e degli Instituti urbani, sulle bandiere della territoriale, sull' elmo dei vigili; passata poi a segno di livrea del Tergesteo e del Teatro; quel segno che il 1848 gridò di ribellione, poi per dilegio sovrappose ad un mellone; quell' alabarda che per omaggio all' Emporio si volle ancora rovesciata, quell' alabarda la cui origine era senz'altro romana, come l'Aquila di Aquileja, ed il Dragone di Lubiana; ma l' alabarda non era segno esclusivo dei Patrizi, lo era della città intera e dei cittadini.

La Cappella di S. Pietro, già sala di radunanza e di giustizia conserva ancora dall' un lato e dall'altro dell'altare gli stalli per li quaranta Pregadi che intervenivano alle Sacre funzioni; a questa era addetta l'Orchestra ed i Cantori che a dispendio del Comune sono ora al Duomo; il Predicatore, ancor oggi pagato dal Comune, privilegio questo che era di Principe; il Cappellano ancora oggi stipendiato dal Comune. Ed anche cessato il corpo Patriziale, anche dopo il 1814, i Governatori vi venivano a Messa ad ora che dessi assegnavano, ed a disposizione

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