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drone assoluto: comanda l'esercito, amministra coll'aiuto di un questore le rendite, fa giustizia, ha tutto mano. Per l'amministrazione della giustizia, pubblica un editto che nel tempo del suo governo diviene per tutta la provincia una legge. Poi percorre la contrada, intima adunanze giuridiche (1), accoglie i lamenti delle città, compone i dissidii, e dà sentenze capitali sui sudditi e sui cittadini romani che sono nella provincia per loro traffici, o come appaltatori delle pubbliche rendite (2). I cittadini avevano diritto di appellarsi a Roma dalle sue sentenze (3), ma pei sudditi non eravi facile scampo. I pretori e proconsoli ne facevano fiero governo: e nelle verrine di Cicerone, puoi vedere come i provinciali fossero oppressi e rubati. Gravissimi erano i dispendii per onorare il pretore, per apprestargli le cene, i cocchi, i padiglioni, e per nutrire la sua corte (4). I sudditi dovevano pagare anche i giochi sontuosissimi che a Roma gli ambiziosi davano al popolo per averne i favori (5).

Così il mondo dopochè era stato saccheggiato dai soldati e dai consoli, dopochè aveva veduto le sue città distrutte e spogliate degli ornamenti più belli, ora era assassinato da chi andava per fargli giustizia.

Nè i mali finivano qui. Saziati gli appetiti dei pretori e proconsoli, rimanevano da saziare le immani voglie dei pubblicani.

(1) Conventus. Vedi Livio XXXI, 29; Cicerone in Verr. V, 11.
(2) Walter, Storia del diritto di Roma lib. I, cap. 27: traduzione

di Emanuele Bollati, Torino 1851.

(3) Gellio XII, 7; Valer. Massimo VIII, 1.

(4) Plutarco, Catone; Livio XXXII, 27,

(5) Livio XL, 44.

Le terre dei vinti, come altrove dicemmo, si confiscavano a pro dello stato ed erano alienate in varii modi. Alcune affittate, altre rese in usufrutto ai proprietarii anteriori coll' obbligo di pagare un' imposta altre finalmente vendute alle città suddite e ai cittadini romani e italiani. I sudditi delle provincie per gravezza ordinaria pagavano il testatico e un'imposta prediale. Avevano poi balzelli straordinarii, come le prestazioni in natura pel governatore e suo seguito, le contribuzioni in denaro per la flotta occorrente alla provincia, i quartieri d'inverno da fornire alle truppe, e nelle città maritțime il carico anche di apprestare interi navilii (1). Questi carichi di per se stessi gravissimi erano resi incomportabili dal modo con cui si esigevano. Non volendo lo stato attendere a raccogliere da se stesso le pubbliche rendite per non esser costretto a tenere numero troppo grande di impiegati, usava di provvedere a questa bisogna così. I censori mettevano all'incanto i tributi, e a chi desse una somma convenuta all' erario, cedevano il diritto che la Repubblica aveva di esigere le gravezze ordinarie, le decime, i dazi dei pubblici pascoli, dei ponti, delle miniere, delle saline e di ogni altra rendita pubblica (2). Coloro che pigliavano questi appalti si chiamavano pubblicani ed erano un nuovo flagello che piombava sul capo dei sudditi. Unico loro intento era il guadagno, e per guadagnare usavano la frode, e si comportavano ferocemente. Erano tali che il loro nome stesso venne a suonare un'infamia. Rubavano i privati e il pubblico. A tempo della guerra di Annibale avendo

(1) Walter loc. cit.

(2) Livio XXXIX, 44; Cicerone in Verr. III, 6.

in appalto il trasporto delle vettovaglie agli eserciti, alcuni di essi finsero di aver patito naufragio, e rubarono lo stato, e furono poi condannati nel capo (1). Per la riscossione delle rendite prese in appalto, erano uniti in varie società, ciascuna delle quali aveva a Roma il suo capo e mandava nelle provincie i suoi agenti (2), i quali facevano estorsioni crudelissime obbligando sovente i sudditi a pagare cinque o sei volte più di quelli che portavano i loro tributi. Gli oppressi ricorrevano al governatore e a Roma, ma non di rado l'oro dei pubblicani aveva comprato il voto dei giudici (3). Si fecero poscia non pochi provvedimenti contro questi ladroni (4), ma il male andò crescendo smisuratamente, e aumentò i pericoli e le onte di

Roma.

(1) Livio XXV, 3 e 4.

(2) Sigonio De jure civ. Rom. II, 4; Guarini, La Finanza del pop. Rom. pag. 29.

(3) Livio XLIII, 2.

(4) Livio XLII, 78; XLIII, 7; Epit. 47 e 54; Cicerone in Verr. IV, 25.

CAPITOLO V.

La fede e la giustizia romana al tempo delle grandi conquiste. Molti gli uomini trascorrenti a mal fare. Novatori e conservatori. Gli Scipioni e Catone. Invasione del lusso e delle delicatezze straniere. Costumi dei giovani, dei vecchi e delle matrone. Le cortigiane. Turpitudini dei Baccanali. La religione e le nuove idee filosofiche. Educazione. Tutto alla greca. Amore a studi novelli. I primi romani scrittori di storie. Poesia epica e drammatica. Nevio, Ennio, Plauto, Terenzio, e altri comici e tragici. Lucilio e la satira.

Che cosa avvenne di Roma dopo le grandi vittorie che la sua fortuna portavano sì alto, e di tanto ampliavano l'impero? Le vinte genti, dice il poeta, si vendicarono della sconfitta e dell' oppressione, invadendo coi propri vizi la città dei vincitori (1). Questa vendetta terribile che preparava la schiavitù e la rovina del popolo re, non sarebbe stata possibile quando le porte degli austeri cittadini stavano chiuse alle lusinghe e all'oro di Pirro. Ma ora i tempi si trovavano mutati e le corruttele di Grecia e di Oriente potevano

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Anche Lucano I, 160 diceva:

Ut opes nimias mundo fortuna subacto
Intulit, et rebus mores cessere secundis,
Praedaque et hostiles luxum suasere rapinae,

entrare facilmente nella città dei Quiriti, perchè i loro cuori erano aperti alle brutte voglie.

Abbiamo veduto nei precedenti capitoli con quali arti guerreggiassero e vincessero in Grecia, in Asia, in Affrica, in Ispagna: notammo più volte come non avessero più sacra la fede, come il giuramento dei trattati rompessero, come le basse astuzie preferissero alle onorate arti di guerra, come ogni studio ponessero a vincere, non badando più ai modi. E le cose procederono a tale che per opera loro andava attorno la massima tristissima, che gli stati non si possono reggere senza ingiustizia (1). I brutti esempi e le brutte dottrine partorirono altri fatti atrocissimi e la politica dei reggitori e le perfide arti dei grandi esercitarono malefico influsso su tutti i cittadini. Allora molti cominciarono a pensare all' utile proprio senza badare all' onesto. Quindi le ruberie e le spoliazioni crudeli mosse dall' amore del guadagno. Avari e crudeli si dimostrarono i capi degli eserciti, e i soldati gareggiarono con essi di rapacità e di ferocia. Allora l'egualità mantenuta dall'antica virtù scomparve con quella. I cittadini cominciando ad amar sè in luogo della Repubblica, si fecero ricchi e potenti ai danni di lei: la città fu divisa tra pochi opulenti che possedevano intere provincie acquistate con male arti, e una turba affamata pronta a vendersi al maggiore offerente. E alla fine i compratori vennero e fu venduto ogni cosa: anche la patria e la libertà furono messe all'incanto.

Al principio della guerra di Perseo, quando i messaggieri romani fecero vanto nella Curia di avere in

(1) Cicerone De Republ. II, 43 dice: Jam vulgo ferebatur rempublicam geri sine iniuria non posse.

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