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dalla Macedonia: e Critolao facendoglisi arditamente incontro si venne a giornata a Scarfea nella Locride, ove gli Achei ebbero una miserabile rotta e lasciarono mille prigioni al nemico. Anche Critolao scomparve nè fu saputo come perisse. Dieo entrò in luogo di lui, e chiamati a libertà gli schiavi e date armi a tutti gli abitatori d' Acaia e d'Arcadia che fossero capaci a combattere, radunò quattordici mila uomini e si rinchiuse in Corinto rigettando ogni proposizione che facesse il nemico. Metello avanzandosi battè in Beozia una banda di Arcadi e prese Tebe e Megara. Ma a lui non fu dato di finire la guerra e di aggiungere al soprannome di Macedonico quello di Acaico. Presto venne in suo luogo il console Lucio Mummio il quale pose il campo presso a Corinto. Gli Achei avuto in una sortita qualche vantaggio contro di lui ne presero ardire a tentativi maggiori e poste le donne e i figliuoli sulle alture vicine, perchè fossero testimoni di loro morte o di loro vittoria, uscirono arditamente dalla città e presso a Leucopetra all' entrata dell' Istmo vennero a giornata campale. Ivi fecero l'estremo di loro possa, e i più morirono da valorosi. Dieo non trovata la morte sul campo fuggì a Megalopoli e bruciò la sua casa e uccise se stesso colla moglie e i figliuoli. Corinto fu abbandonata da tutti gli abitanti che fuggirono sulle montagne di Arcadia. Mummio entratovi tre dì dopo la battaglia, la messe a sacco e a distruzione. In breve ora la desolazione e lo squallore apparvero ove già sorse la bella ed opulenta città, sede di tutte le arti, emporio comune dell' Europa e dell' Asia ornamento e splendore della Grecia (1). Al suono delle

(1) Achaiae caput, Graeciae decus. Floro II, 16. Urbs toto tunc orbe longe omnium opulentissima: quippe quae velut officina omnium

Anni di

Roma 608.

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trombe fu appiccato il fuoco da ogni parte, e tutta l'antica magnificenza fu ridotta a un mucchio di ceneri. Furono rubate le ricchezze e tutte le preziose opere dell'arte greca raccolte ivi in più secoli. Mummio si dimostrò feroce cogli uomini e ignorantissimo nello stimare le opere dell' ingegno, perocchè nel mandare a Roma alcune statue e dipinture famose, disse a quelli che le portavano, che se le perdessero sarebbero condannati a rifarle di nuovo (1). Gli abitatori di Corinto furono venduti come schiavi. La medesima sorte sarebbe toccata a tutto il Peloponneso, se Polibio per mezzo del suo amico Scipione non otteneva mercè. Dappertutto furono tolte via le assemblee popolari, disciolte le leghe, creati governi oligarchici. La Grecia perdè anche il suo nome glorioso nel linguaggio officiale dei vincitori divenne una provincia romana col nome di Acaia, e Mummio insigne per le stragi degli Achei salì al Campidoglio col soprannome di Acaico (2).

artificum atque artificiorum et emporium commune Asiae atque Europae per multa retro saecula fuit. Orosio V, 3. Vedi anche Diodoro Fragm. XXXII, 27 e Pausania VII, 16.

(1) Mummius tam rudis fuit, ut capta Corintho, cum maximorum artificum perfectas manibus tabulas ac statuas in Italiam portandas locaret, juberet praedici conducentibus, si eas perdidissent, novas eos reddituros. Velleio I, 14.

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CAPITOLO IV.

Terza guerra punica. Cartagine distrutta, e i suoi possessi ridotti a provincia romana. Nuove guerre di Spagna. Viriato, e Numanzia. Sottomesso anche il regno di Pergamo. Estensione dell'impero romano, e sorti dei vinti assassinati dai proconsoli e dai pubblicani.

Due mesi prima di Corinto era stata distrutta anche la grande città che per tanti secoli fu signora dell' Affrica e tenne da ogni parte l'impero dei mari. Vinto Annibale nei campi di Zama, Cartagine impedita come vedemmo, dal far guerra senza licenza di Roma, rimase esposta agli assalti continui di Massinissa cupido d'ingrandirsi ai danni dei vinti. Il fiero Numida era instancabile nelle rapine, e Roma che lo aveva lasciato colà come strumento della distruzione di Cartagine, approvava tutto quello che per lui si facesse, guardando al tempo stesso che anch'egli non divenisse potente di troppo. Dapprima ei prese ai Cartaginesi il ricco territorio di Emporia, poi altri luoghi. La città non potendo respingere la violenza colle armi mandava a Roma ambasciate e lamenti, e il senato mentre nel fatto dava ragione a Massinissa, dava promesse ai Cartaginesi, e s'impegnava ad impedire no

Storia antica d'Italia Vol. II.

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velle usurpazioni (1). Ma erano vane parole: e il Numida nel 579 procedeva a nuove rapine, e spogliò Cartagine della provincia di Tisca e di 70 città. Quindi nuove ambasciate al senato a supplicare che fosse permesso di respingere colla forza l'ingiusta aggressione, altrimenti avrebbero più cara la servitù sotto il dominio di Roma che la libertà esposta di continuo alle violenze del re. Queste cose accadevano al momento in cui stava per iscoppiare la guerra di Perseo e quindi temendo che Cartagine troppo oltraggiata si unisse con lui, fece sembiante di dare ascolto ai reclami, e ordinò che si stesse ai confini antichi, che le provincie in controversia rimanessero ai possessori legittimi, e che a niuno fosse permesso di farle sue colla forza. Ma anche queste riuscirono vane parole: la cosa andò per le lunghe e niuna giustizia si fece. Da ultimo fu mandato Catone con altri arbitri a quietare la contesa i quali giunti in Affrica chiesero che i contendenti si rimettessero nel loro arbitrio. Massinissa si accordò di buon grado, ma i Cartaginesi che sapevano per molte prove essere le romane ambascerie loro nemiche, e favorevoli sempre all'usurpatore rifiutarono quell' arbitrio, e chiesero che si giudicasse a norma del trattato fatto già con Scipione, e si ricercasse ciò che era stato commesso contro di quello. Non fu resa giustizia a queste domande: tutto rimase sospeso, e Massinissa conservò le terre rapite (2). Catone mosso già a sdegno della opposizione trovata montò in furore, quando visitato coi suoi com

(1) Livio XL, 17, 34; Polibio XXXII, 2; Appiano De Rebus Punicis 67.

(2) Livio XLII, 23, 24.

pagni la città e i luoghi dattorno, trovò che invece di miseria e desolazione vi era ricchezza e popolazione fiorente e copia grande di armi e di ogni apparato di guerra. Ei tornò subito a Roma dicendo pericolosa alla Repubblica la potenza di quella vicina città, e denunziando come un delitto il suo prospero stato. Narrano anche, che scuotendo la toga si lasciò cadere in mezzo alla Curia de' fichi che aveva portati dall'Affrica e che mentre i senatori ne ammiravano la beltà e la grossezza, egli gridò che il paese che produceva quelle frutta squisite era solamente a tre giorni di viaggio da Roma. E da quel momento in poi tutti i suoi discorsi sopra qualunque materia finivano sempre col motto: bisogna distrugger Cartagine. Il suo avviso dapprima fu contrastato non per amore della giustizia, ma nell' interesse della Repubblica: e Scipione Nasica e Lentulo sostenevano la contraria sentenza, stimando che distrugger Cartagine tornasse a danno di Roma. Ma alla fine i più decisero la guerra, celando di presente il loro proposito e aspettandone il destro (1).

E il destro e il pretesto vennero in breve. Cartagine era piena di sette e di parti, due delle quali erano vendute ai Romani e a Massinissa, e l'altra sosteneva i diritti e la libertà della patria. I patriotti alla fine non potendo più reggere contro l'impudente contegno dei parteggianti per gli stranieri ne esiliarono quaranta dei principali, i quali si ripararono presso il Numida e lo eccitarono a guerra contro alla loro città. Massinissa che null' altra cosa più ardentemente desiderava che avere occasione a nuove rapine, chiese

(1) Appiano loc. cit. 69: Plutarco, Catone; Cicerone Tuscul. Quaest. III, 21.

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