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si mostrava svisceratissimo della libertà: e i Greci furono presi facilmente alle sue arti volpine.

Passato il mare, trovò Filippo che difendeva l'entrata di Macedonia e di Grecia alle gole dell' Epiro, chiuso da fiumi e da monti, dalle rupi dei quali poteva come da fortezze schiacciare gl'invasori. Il console conduceva otto mila veterani di Affrica, gente ardita e provata a tutte le difficoltà e a tutti i pericoli, colla quale era risoluto ad aprirsi a forza la via pel campo nemico, e invadere la Macedonia, e finire con un gran colpo la guerra. Per quaranta giorni fece ogni sforzo per aprirsi una strada nei luoghi inaccessibili: ma i monti e gli stretti passi che teneva il Macedone stavano contro ad ogni ardimento. Non potendo passare colla forza ricorse alle astuzie, e per mezzo di un pastore che aveva contezza dei luoghi, riuscì a far pervenire quattromila dei suoi sulle alture che dominavano il campo nemico. Questi appena arrivati alle cime, e datone col fumo segnale al console, si gettarono addosso al nemico di dietro, mentre Flaminio lo assaliva alla fronte. I Macedoni, presi da terrore, parte furono colti in mezzo ed uccisi, parte fuggirono, e le porte della Grecia rimasero aperte. Per questo successo tutto l'Epiro si dêtte a Flaminio che accolse umanamente i popoli e tenne in dovere i soldati perchè niuno avesse da lamentarsi di Roma.

Filippo ritirato in Tessaglia dietro la catena del Pindo preparava nuova difesa nei luoghi forti bruciando le città che non potevano difendersi e conducendo sui monti gli abitatori. Ma questo che era un espediente di guerra e di difesa gli fu imputato ad atto barbarico, e servì ad alienare da lui molti che ammiravano la moderazione e l'umanità di Flaminio. Questi intanto

procedeva prosperamente, e pochi luoghi tennero fronte, dopochè Gonfi una delle piazze più forti ebbe ceduto senza opporre resistenza. Cederono in breve quasi tutte le città della Focide: in Eubea, Eretria e Caristio furono prese dalle navi romane unite a quelle di Rodi e di Pergamo (1): e a vincere il resto dei Greci Flaminio usò le arti di cui era maestro. Per mezzo dei suoi partigiani tirò a sè la più parte degli Achei e del Peloponneso: vinse gli Acarnani colla forza e coll'arte (2): e volendo raggiunger lo scopo senza badare ai mezzi, fece amicizia con Nabide osceno tiranno di Sparta, e lo recò a tradire Filippo di cui era alleato. I Beozi rimanevano ancora indecisi sul partito da prendere, quantunque i Romani avessero comprati due dei loro capi. Flaminio fece determinare gli altri con una sua nuova arte. Andò a Tebe in persona fingendo di domandare alleanza. I cittadini principali gli si fecero incontro accogliendolo onoratamente. Ed egli inoltravasi loro amorevole, e intertenendoli con belle maniere entrava in città. Presto lo raggiunsero ivi duemila soldati che lo seguivano a breve distanza. Egli, come se già non fosse padrone di Tebe, continuava a confortare i cittadini a divenire amici di Roma. Gli stupidi Tebani comecchè sentissero onta del laccio teso, non poterono fare resistenza e cederono alla necessità (3). L'esempio fu seguito da tutta Beozia.

Filippo privo così dei paesi da cui traeva viveri ed uomini rimaneva col solo suo regno di Macedonia, ed era siffattamente esaurito che gli bisognò chiamare

(1) Livio XXXII, 13 e segg. Plutarco, Flaminio.

(2) Livio XXXIII, 16.

(3) Plutarco, loc. cit.

Anni di

Roma

Av. G. C.

197.

alle armi i giovani di 16 anni (1). Ora una battaglia poteva por fine alla guerra. Ciò cercava con ogni studio Flaminio, e fece ogni suo potere per tirare il nemico a battaglia campale. Nella primavera rinforzato ma 557 dagli aiuti dei Greci andò con 25 mila uomini a cercar Filippo, che con numero uguale di gente stava nei dintorni di Fere in Tessaglia. Si scontrarono vicino a Scotussa su piccole colline dette i Cinocefali ove il luogo non era propizio alle armi macedoni. Il menare delle mani cominciò con altissime grida da ambe le parti. Flaminio cacciò innanzi gli elefanti che messero in gran disordine gli avversarii spaventati dalle terribili bestie. La falange macedone grave troppo ai movimenti, fu rotta dalla legione romana più facile a piegarsi sul terreno ineguale. La cavalleria degli Etoli, la più forte di tutta la Grecia, dêtte dentro la prima e decise il contrasto. Il nemico perdè ottomila morti e cinquemila prigioni (2).

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Filippo fuggito a corsa dirotta, raccolse gli avanzi della disfatta nella valle di Tempe e di là si recò in Macedonia. La fortuna lo abbandonava da tutte le parti. I suoi che difendevano Corinto erano stati battuti dagli Achei con perdita di duemila uomini. Gli mancavano anche gli alleati di Acarnania colla caduta di Leucade presa d'assalto da Lucio Quinzio fratello del console. Onde non gli rimaneva altro partito tranne quello di sottomettersi alle voglie del vincitore. Mandò messaggi a Flaminio per avere una tregua che gli fu accordata per 400 talenti, e poi ebbe pace a patti che consegnasse le navi, non potesse tenere più di 500 soldati,

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(2) Polibio XVIII, Fragm. 1; Livio XXXIH, 9; Giustino XXX, 4.

richiamasse i presidii dalle città della Grecia e dell' Asia già tenute per lui, pagasse mille talenti in dieci anni, desse ostaggi, tra i quali il suo figlio Demetrio, e non potesse far guerra senza il permesso di Roma (1).

Le città di Grecia erano la più parte contente di questa pace, perchè, essendo tolti loro dal collo i presidii macedoni credevansi tornate a libertà. Ma gli Etoli non contenti a ciò, domandavano che Filippo fosse distrutto, e fremevano che non si dessero loro, secondo un antico trattato, le città tolte a lui. Flaminio rispondeva vantando l'umanità dei Romani usi sempre a non distruggere i vinti, e diceva non essere da toglier di mezzo un regno che difendeva la Grecia dalle invasioni dei Traci, degl' Illiri, e dei Galli. Ed essi infuriavano più che mai scorgendo bene che lasciavasi la Macedonia perchè servisse a bilanciare la loro potenza. Rimproveravano d'ingratitudine il console, che dopo avere ai Cinocefali vinto per essi non li ricompensava del gran beneficio e poichè egli teneva in sua mano le fortezze di Corinto, di Calcide e di Demetriade, gli Etoli apertamente lo accusavano di aver tolte alla Grecia le catene dai piedi per mettergliele al collo (2).

Per rispondere a queste accuse e ingannare tutti con belle parole, Flaminio d'accordo coi dieci commissarii mandati da Roma a ordinare le faccende di Grecia, nella solennità dei giuochi istmici celebrati a Corinto con gran concorso di popolo, fece da un banditore pubblicare il seguente decreto che dava libertà ai popoli stati soggetti a Filippo. « Il senato e il popolo romano e il proconsole Flaminio vincitore di Fi

(1) Livio XXXIII, 30.
(2) Plutarco, loc. cit.

lippo ordinano che siano liberi e vivano con loro proprie leggi i Corintii, i Focensi, i Locresi, gli Eubei, i Magnesi, gli Achei Ftioti, i Tessali e i Perrebi ». Dopo questa lettura niuno poteva credere a ciò che aveva ascoltato, e il banditore fu costretto a recitare di nuovo il decreto. Allora si levarono grida di gioia frenetica: gettarono corone a Flaminio, lo salutarono liberatore e salvatore della Grecia, e gli fecero tanta calca d'attorno ch' ei corse pericolo di restar soffogato. In appresso lo celebrarono insieme cogli Dei: gli consacrarono belli edificii ove scrissero il suo nome accanto a quelli d'Apollo e di Ercole. Le muse cantarono il gran Giove e Roma e Flaminio, e la candidissima fede romana. Niuno sapeva comprendere come vi fosse al mondo una gente che a sua spesa e pericolo passasse i mari e facesse la guerra per abbattere i tiranni e dare ai popoli la libertà (4). Era una strana illusione che a tutti mandava in giro il cervello. Quando cadde loro la benda dagli occhi non vi era riparo: cantati gl' inni al liberatore si trovarono ai piedi le catene della schiavitù come noi in tempi recenti continuammo ad essere schiavi dopo l'invasione dei repubblicani di Francia, che dicevansi venuti in Italia apportatori di libertà (2).

Flaminio di commissione del senato rimase più tempo in Grecia per ordinarne lo stato, e menò destrissimamente sue arti. Spodestata la Macedonia,

(1) Livio XXXIII, 32; Plutarco, loc. cit.

(2) I Francesi in Italia ripeterono a nome della libertà tutti i vitupêri, e tutte le arti di dispotismo con cui i Romani desolarono la Grecia: gli uni e gli altri furono ugualmente perfidi, traditori e ladroni crudelissimi. Per questi confronti vedi il libro dei Romani in Grecia pubblicato in Italia con intenzione di satira dopo l'invasione francese.

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