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Queste cose accadute rapidamente avevano disturbati tutti i disegni di Roma. Il senato, colto alla sprovvista dall' audace impresa di Annibale, richiamò in fretta dalla Sicilia Sempronio che erasi impadronito di Melita (Malta), e gli ordinò riconducesse subito le legioni a difendere la patria pericolante. Egli lasciata una parte della flotta a guardare le coste di Campania e Lucania partì immediatamente e in -40 giorni di marcia raggiunse Scipione alla Trebbia (1).

I due consoli uniti insieme avevano circa 40 mila uomini e Annibale rinforzato dai Galli stava accampato a cinque miglia con numero di poco inferiore. Ma baldanzoso dei primi successi aveva grande desiderio di terminativa battaglia per avere agio a riposare le truppe nelle stanze d'inverno e di ordinare le forze dei Galli a maggiori imprese. Anche Sempronio era cupidissimo di venire alle mani, stimando facile il vincere, e vagheggiando per se solo tutta la gloria di liberare l'Italia dei barbari mentre Scipione era ancora malato della ferita. A ciò davagli animo anche qualche vantaggio avuto sulle bande nemiche scorrenti attorno a far prede. Il differire gli era gravissimo, e quindi sdegnando i prudenti consigli del suo collega si lanciò alla battaglia e dêtte nelle insidie postegli da Annibale che passato il Po stava sulla riva orientale della Trebbia con animo d' impedirgli la ritirata.

Era una freddissima giornata d'inverno, e cadeva folta la neve. Le legioni, provocate dai cavalli numidi, di buon mattino passarono il fiume cresciuto di acque e giunsero sull' altra riva bagnate di acqua gelata, e

(1) Polibio III, 14; Livio XXI, 5.

offese dalla neve che il vento spingeva loro nel viso. Ivi trovarono Magone fratello di Annibale che all'improvviso erompeva dagli aguati: trovarono contro a sè il nemico bene riscaldato e nutrito, e fresco di forze e pronto di corpo e di animo. Comecchè stanchi dal difficil passo del fiume e digiuni e irrigiditi dal gelo, i Romani pugnarono valentemente: ma assaliti da una cavalleria tre volte maggiore (1), saettati dai frombolieri baleari che lanciavano una terribile pioggia di strali, e disordinati dagli elefanti, furono messi in piena rotta e lasciarono numero grande di morti sul campo e nel fiume. Circa diecimila intorniati da ogni banda si apersero valorosamente la via in mezzo alle schiere affricane, e non potendo tornare al campo impedito dal fiume andarono a riparo a Piacenza.

Dopo questa sconfitta i Romani si tennero in Cremona, in Piacenza e in Modena che sole rimanevano in loro potere, e ivi appiccatisi a scaramuccie ottennero qualche vantaggio (2); ma poscia i consoli doverono ritirarsi disperando di mantenere le posizioni del Po.

La Cisalpina era in mano di Annibale che usava ogni arte per farsi i popoli amici. I prigioni Romani trattava barbaramente, ma era pieno di riguardi e di cortesie con gli altri, ripetendo continuamente di esser venuto a liberarli dai loro nemici. Pure i Galli che avevano sperato di esser condotti a predare soffrivano di mal animo che toccasse loro a nutrire a lungo l'esercito, e cospiravano contro Annibale, il quale per sottrarsi alle insidie era obbligato a trasfigurarsi e a mutare spesso l'acconciatura e le foggie del

(1) Livio XXI, 55.

(2) Livio XXI, 57, 59.

Storia antica d'Italia. Vol. II

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vestire (1). Onde egli, per affrettare l'impresa che era il suo scopo precipuo, ai primi segni della primavera si mosse alla volta di Etruria: ma una furiosa tempesta di vento e di grandine e un rigidissimo freddo non gli lasciarono passare gli Appennini, e dovette attendere stagione migliore.

Roma, in questo mezzo, aveva compreso quanto grande pericolo si portasse dopo la disfatta dei consoli. Vi fu terrore, e crederono di vedere in breve il nemico alle porte. Le voci corse dei tanti e stranissimi prodigii accaduti mostrano in quanto trepida agitazione fossero gli animi. Furono fatti sacrifizi, supplicazioni e doni agli Dei (2) in gran numero, e, quel che più valeva, apparecchi convenienti al bisogno. Armate 60 navi per guardia dei mari d'Italia, fatte gagliarde leve, mandate genti in Sardegna, in Sicilia, a Taranto, e in tutti i luoghi opportuni: chiusa la via agli aiuti che di Spagna potessero venire ad Annibale. Poi quattro nuove legioni unite agli avanzi di quelle rotte alla Trebbia furono condotte dai nuovi consoli Flaminio e Servilio in Etruria e ad Arimino per tener testa al nemico (3). Flaminio era quel desso che già aveva vinto gl' Insubri e che la nobiltà odiava per le leggi sostenute, contr' essa (4). Ora i suoi nemici tentarono anche di annullare la sua elezione narrando grandi prodigii di pietre ardenti cadute dal cielo, di combattimenti della luna e del sole, e di molte altre cose stranissime (5) le quali egli considerando come artificiosi pre

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(1) Polibio III, 16; Livio XXII, 1; Appiano De Bell. Annib. 7.

(2) Livio XXI, 57, 62.

(3) Polibio III, 16.

(4) Livio XXI, 63.

(5) Livio XXII, 1.

testi per vietargli il comando, partì precipitosamente senza niuna solennità di auspicii e si pose a campo in Etruria presso di Arezzo.

Annibale già aveva passati gli Appennini dalla parte di Liguria venendo, come sembra, per la valle del Serchio. Nel Valdarno di sotto incontrò il fiume impaludato: lottò quattro giorni coll'acqua e col fango perdendo molta gente e tutti i bagagli. Egli montato sopra il solo elefante che gli rimanesse, passò lasciando un occhio nelle paludi. Il suo fratello Magone venendo dietro colla cavalleria spingeva i Galli renitenti, col cacciar loro nelle reni le spade. Scampati finalmente e giunti all'asciutto dalla parte di Fiesole, nei fertili campi etruschi si riebbero dalle patite fatiche predando le ricche contrade del Valdarno di sopra (1). L'Etruria non fece alcun moto all' apparire dei Cartaginesi, come Annibale aveva sperato, e quindi egli continuò suo viaggio dalla parte dov'era Flaminio disertando col ferro e col fuoco la Valdichiana per provocarlo a battaglia. Ma poichè il console non si moveva da Arezzo, egli avanzando al di sotto, e lasciando Cortona a sinistra, si avvicinò al lago del Trasimeno e lungo le rive salì alle colline che dividono il lago dalla valle del Tevere, ponendosi in sito fortissimo. Flaminio ad onta dei tristi augurii, lo seguiva animoso colla speranza di piombare sopra di lui in ordine di marcia e ingombro dalle prede. Ma mentre ei si spingeva avanti per gli stretti passi tra le colline e il lago, Annibale che stava agli aguati fece precipitare sull'incauto i suoi da tre parti. La giornata essendo fatta oscura da folte nebbie sorte dal lago e non potendo scorgersi

(1) Polibio III, 16 e 17; Livio XXII, 3.

ciò che accadesse anche a poca distanza, ne veniva disordine e confusione maggiore negli improvvisamente assaliti. I capi non sapevano dove portar soccorso contro un nemico che da ogni lato erompeva tremendo e li fulminava. Non vi fu tempo nè modo a ordinarsi a battaglia ognuno era duce a se stesso pugnando e resistendo come la necessità comandava. Vi fu tre ore di battaglia atrocissima, nella quale le fauci dei colli e le rive del lago risuonarono di strepito sì disperato, che narrano non essersi ascoltato dai combattenti un gran terremoto, per cui in quel tempo erano scoscesi gioghi di monti e rovinate città (1). Quindici mila Romani rimasero sul campo o caddero nel lago. Il troppo impetuoso e incauto Flaminio perì valorosamente pugnando in mezzo ai più prodi, e meritò che lo stesso nemico cercasse il suo corpo per rendergli onore. Soli diecimila uomini per diverse vie tornarono a Roma (2). Altri seimila, che dopo lunga battaglia si aprirono la strada rovesciando quelli che li contrastavano di fronte, giunsero alle alture, ma perseguitati dal nemico vittorioso furono costretti ad arrendersi. La medesima sorte toccò poco dopo a quattromila cavalli che Servilio mandava in aiuto. I prigioni furono quindicimila (3): fra i quali, secondo l' usato, Annibale porgevasi benevolo agli alleati, e trattava ferocemente i Romani.

Dalle rive del Trasimeno il vincitore procedè nell'Umbria devastando il ricco piano che al di là di Perugia si distende dal Tevere fino a Spoleto. Gli abitatori spaventati fasciavano i campi e si riparavano ai

(1) Livio XXII, 5; Plinio II, 86; Plutarco, Fabio.

(2) Livio XXII, 7.

(3) Polibio III, 17, 18.

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