Abbildungen der Seite
PDF
EPUB

vazione i Veneti e i vicini Galli Cenomani seguirono le parti di Roma e minacciarono il paese dei Boi. Onde questi non poterono muover tutti all'impresa per non lasciare senza guardia la propria contrada. Pure insieme coi loro collegati raccolsero un'oste di 50 mila fanti e di 20 mila cavalli con numero grande di carri e si diressero alla volta di Etruria. Quelli che governavano i destini di Roma mostrarono ardire e senno pari agli eventi. Non mancarono d'animo quantunque questa non fosse la sola guerra a cui dovevano far fronte, perocchè nella primavera del 529 quando i Galli eran sul muoversi fu bisogno mandare il console C. Regolo con un esercito a comprimere i Sardi intolleranti del dominio romano. Allora si vide con quanta energia il governo della Repubblica poteva affrontare un subitaneo pericolo. Levato il grido delle armi, da ogni parte accorsero unanimi. I sacerdoti stessi si armarono, e da un capo all'altro d'Italia tutta la popolazione libera atta alle armi rispose concordemente all' appello, sapendo che qui non trattavasi di far grande Roma, ma di salvare la patria dal furore di barbari ferocissimi. Così conoscendo tutta l'ampiezza delle forze su cui poteva contare, il governo di Roma potè apparecchiarsi a tutte le venture di guerra. Polibio narra che le genti italiane che presero le armi furono tra fanti e cavalli 200,500, cioè 43,700 Romani, e 156,800 alleati: ai quali unendo i pronti ad accorrere quando fosse bisogno di far leva generale, si aveva la somma di 700 mila fanti e 70 mila cavalli (1). Gli Umbri vennero dall' Appennino in numero di 20

(1) Fabio Pittore scrisse che Roma fu sostenuta da 800 mila uomini. Vedi Eutropio III, 2.

mila e nei quadri del censo che aveva il senato comparivano 80 mila fanti e 5 mila cavalli latini: 70 mila fanti e 7 mila cavalli sanniti: 50 mila fanti e 16 mila cavalli japigii e messapii: 30 mila fanti e 3 mila cavalli lucani: 20 mila fanti e 4 mila cavalli marsi, marrucini, frentani e vestini. I Romani coi Campani potevan fornire 250 mila fanti e 25 mila cavalli.

I. Galli potevano venire per due strade nel cuore d'Italia per l'Umbria da Arimino e per l'Etruria. La prima via fu coperta da un esercito consolare di 27 mila uomini e dalle forze degli Umbri e degli ausiliarii Cenomani e Veneti che stavano alla frontiera dei Galli pronti a piombare sulle terre dei Boi presso le moderne città di Faenza e Forlì: mentre il console Emilio stava apparecchiato a far fronte lungo il mare Adriatico dalla parte di Arimino. Nell' altra linea che conduceva per l'Etruria eravi un esercito di 54 mila tra Sabini ed Etruschi comandati da un pretore romano: e Roma era difesa da una riserva di più di 50 mila uomini.

Gl' invasori condussero destramente lor marcia: perocchè passando tra gli eserciti romani discesero dagli Appennini nel Valdarno di sopra, andarono ad Arezzo e di là verso Chiusi guastando dappertutto e rubando le belle contrade. Ciò sentito il pretore che guardava l'Etruria, mosse tosto l'esercito. Ma i Galli si volsero arditamente contro di lui, e lo batterono e gli uccisero seimila uomini (1). Ma non poteron distrug

(1) Comunemente si chiama questa la battaglia di Fiesole: ma è stato con ragione avvertito che in un sol giorno i Galli non poterono percorrere le 70 e più miglia che sono da Chiusi a Fiesole. Osservando meglio il testo di Polibio pare possa stabilirsi che il fatto accadesse sui colli che chiudono la Val di Chiana dalla parte di Siena. Vedi Guazzési,

gerlo, perchè repentinamente apparve in suo aiuto il console Emilio mosso da Arimino alla novella che i Galli erano entrati in Etruria. Al suo appressare, i Galli avendo a cuore di mettere in salvo la ricca preda raccolta non accettarono la battaglia, e intesero a ritirarsi al loro paese per tornare poi più spediti alla guerra. Siccome i Romani erano di mezzo fra essi e gli Appennini, non poterono mettersi per la via più spedita e stabilirono di andare per la valle dell' Ombrone verso la Maremma tirrena per recarsi lungo le marine in Liguria, e di là al loro paese. Il console Emilio li seguiva alle spalle e mentre raggiunte le coste marciavano a tramontana verso le foci dell'Arno volle fortuna che il console C. Regolo tornando colle legioni dalla Sardegna sbarcasse a Pisa, e dirigendosi per le coste alla volta di Roma venisse senza saperlo in aiuto. Egli incontrò l'avanguardia dei barbari presso al capo di Telamone e si postò in un' altura sopra la strada per arrestare i loro passi. Fu combattuta una battaglia fierissima. I Galli rinchiusi dai due consoli e privi della speranza di potersi ritirare per niun verso, cercarono loro salute nelle armi, e lungamente e con furore disperato, finchè durarono loro le forze, fecero testa da due parti al medesimo tempo. Alla fine la cavalleria romana li menò a distruzione. I Romani perderono il console Regolo: ma dei Galli erano caduti 40 mila sul campo e 10 mila erano rimasti prigioni. Dei capi dei barbari, Concolitano fu fatto prigione, e Aneroesto si dêtte di propria mano la morte non comportando l'onta della disfatta.

Intorno ad alcuni fatti della guerra gallica cisalpina; e Micali par. II, cap. 14.

Dopo questa vittoria che liberava l'Italia dal terrore barbarico, il console Emilio si affrettò ad invadere le terre dei Galli andando per la via di Liguria che avevano inteso fare essi: e corse e predò tutto il paese nemico e tornò a Roma in trionfo, e come splendido monumento della grande vittoria sospese nel tempio di Giove le catene d'oro con cui i Galli si adornavano il collo e le braccia (1)..

Dopo questi successi, Roma rivolse tutti i pensieri a finire la guerra e recare in poter suo tutto il paese tenuto dai Galli al di qua delle Alpi, e si messe al

ין

opera arditamente per impedire così che si rinnovassero i corsi pericoli. Due eserciti consolari per tre anni di seguito fecero guerra continua nella Gallia Cisalpina e sottomisero l'uno dopo l'altro i popoli abitanti fra gli Appennini e le Alpi dai dintorni di Arimino fino al Ticino. Il console Flaminio contrariato dal senato che lo teneva per un demagogo vinse a dispetto di esso, e a dispetto di esso trionfò degl' Insubri battuti sull'Adda, quantunque sostenuti dai Galli transalpini si difendessero valentemente sotto loro sacre insegne use a spiegarsi solo nelle grandi occorrenze. In appresso i consoli Claudio Marcello e Gneo Cornelio Scipione compirono l'opera, e presa Milano forzarono gl' Insubri a rimettersi alla discrezione del senato che confiscò una parte di lor territorio, impose grossi tributi, e costretti i nemici a riconoscere la signoria di Roma, per assicurarsi di essi fondò poscia sul Po le due forti colonie di Piacenza e Cremona in ciascuna delle quali furono mandate seimila famiglie (2).

(1) Polibio II, 6; Floro II, 4.

(2) Polibio II, 6; Livio Epitome XX; Tacito Hist. III, 34; Velleio I, 15; Zonara VIII, 20; Orosio IV, 13; Asconio in Pison, Fragm.

Le parti prime della guerra le aveva fatte Marcello che poi divenne una delle più grandi glorie di Roma. Era un prode che cercava le grandi avventure, e con ardire stupendo affrontava tutte le difficili cose. Più tardi lo incontreremo più volte a magnanime prove. Egli avea circa a 50 anni, ed era salito ora al primo suo consolato. Combattendo coi Galli a Clastidio, aveva offerto di portare in voto a Giove Feretrio le più belle armi nemiche. Mentre faceva quel voto si avanzò vibrando l'asta contro di lui il re Viridomaro, uomo di persona più grande di ogni altro, in armatura fregiata d'oro e di argento, e distinta a varii colori. Marcello tenendo che quelle fossero le armi degne di Giove si lanciò contro di lui, lo uccise e prendendone di propria mano le spoglie esclamò: O Giove Feretrio che miri le grandi azioni dei capitani siimi testimone tu stesso che io mi sono il terzo duce romano che avendo ucciso il re dei nemici a te le prime e più belle spoglie consacri.

le

Finita la guerra, la sua prodezza fu ricompensata di onori grandissimi: a lui solo fu decretato il trionfo, ed ei portò con solennità grande al Campidoglio la bella armatura. La pompa fu delle più singolari per ricche e magnifiche spoglie, e per la straordinaria corporatura dei prigioni che seguivano il carro trionfale. Marcello, accomodata l'armatura del barbaro a un lungo tronco di albero in guisa che rendesse imagine di una persona armata, portava egli stesso sulle sue spalle il trofeo. Veniva dietro l'esercito cantando inni di guerra e versi in encomio del Nume, e del glorioso duce. La folla accorsa da ogni parte applaudiva al trionfatore. Il quale fatto il giro del fôro salì al Campidoglio ove intonando l'inno di rendimento di

Storia antica d'Italia. Vol. II.

24

« ZurückWeiter »