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usurai e della intolleranda superbia dei nobili ai quali apponeva di essersi appropriato il tributo imposto per rimetter nei templi l'oro pagato ai Galli, e chiedeva fosse restituito per usarlo al pagamento dei debiti. I padri per frenare il pericoloso agitatore della plebe gli mossero contro il Dittatore Cornelio Cosso, il quale citatolo al suo tribunale lo mise in carcere per tentata sedizione, e come reo di calunnie contro i patrizi. Di ciò la plebe mostrò dolore grande, e prese vestimenti di lutto: molta turba in mesto contegno stava giorno e notte nel vestibolo della prigione, e minacciava di romperla. Delle quali minaccie il Dittatore avuta paura, si sobharcò dall' incarico e il senato per calmare gli animi forte commossi liberò il prigioniero. Il quale uscito di carcere aveva animo maggiore di prima, parlava più audaci parole, teneva più grandi le radunate in sua casa, eccitava la plebe già ardente, e la spronava ad avere ardimento se voleva esser libera. Tutto questo accrebbe la paura ai patrizi. Fu quindi ordinato ai magistrati che prendessero cura che la Repubblica non riavesse danno dalle sedizioni di Manlio, ed ei fu citato avanti all'assemblea delle centurie per accusa di affettata tirannide. Quantunque sia incerto quali fossero i suoi veri disegni (1), a questa imputazione gli amici suoi, e gli stessi fratelli lo abbandonarono, tanto era l'orrore che anche il solo sospetto della tirannide metteva negli animi tutti. Pure quando egli ricordò all'assemblea le opere sue e il Campidoglio salvato, il popolo sentì di non lo poter condannare. Ma come la condanna era stimata necessaria alla salute della città,

(1) Livio VI, 20 non trovò in niuno autore qual cosa propriamente gli fosse apposta intorno al delitto di regno.

l'accusa fu portata davanti all' assemblea delle curie, e in esse i patrizi nel bosco Petelino fuori della porta Nomentana gli dettero condanna di morte (1). È dubbio se avanti avesse agito da manifesto ribelle, o se la condanna lo spingesse a siffatto partito: ma è chiaro che a questo punto egli è in guerra aperta colla Repubblica, e che tiene il Campidoglio con una banda di armati. Ivi gli si presentò uno schiavo sotto sembiante di un emissario dicendo aver da conferire con lui di una cospirazione. Manlio andò con lui in disparte per sentire il segreto, e come fu in luogo solitario, sull'orlo della rôcca Tarpeia, il traditore lo precipitò dalla rupe (2).

Manlio aveva potuto impadronirsi del Campidoglio perchè vi aveva la casa: quindi fu decretato che d'ora in poi niun patrizio potesse abitare nella fortezza di Roma. La casa del cospiratore fu demolita, e la famiglia di lui decretò che niuno dei suoi potesse più portare il nome di Marco. Ma il popolo pianse, e poco appresso quando la pestilenza e la carestia vennero ad aumentare i pubblici mali fu creduto che gli Dei facessero vendetta del Salvatore dei loro templi (3).

Il senato per rimettere la calma in città stabilì di distribuire alla plebe le terre dell' agro Pontino che i tribuni avevano reclamato già da quattr' anni, e mandar colonie a Sezia, a Sutri e a Nepete (4). Ma ad onta di questo la miseria cresceva ogni giorno, e i debitori erano trattati con modi crudeli. Per imporre le gra

(1) Niebhur IV, 408.

(2) Vedi Dione Cassio Fragm. XXXI, e Zonara VII, 29 dai quali differisce il racconto di Livio.

(3) Livio VI, 20.

(4) Livio VI, 5, 16, 21, 30; Velleio I, 15.

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vezze faceva mestieri conoscere i debiti, la cui somma era rimasta incerta dopochè l'incendio aveva distrutto i quadri del censo. Per quindici anni si ebbe ricorso a stime approssimative (1), nelle quali probabilmente furono favoriti gl'interessi dei grandi. Dopo si elessero per tre volte i censori, ma non rifecero il censo, e lasciarono l'ufficio adducendo che la loro elezione era irregolare per mancanza di auspicii, e dicendo che gli Dei non volevano la censura (2). Era uno scherno crudele e impudente; non volevasi che si vedesse la somma del debito perchè non apparisse che una parte della città era oppressa dall'altra, e perchè non si facesse la voltura dell' estimo delle proprietà oberate, desiderando i ricchi godere i beni dei loro debitori senza pagarne l'imposta. I tribuni della plebe si levavano di tutta forza contro queste ladre violenze dei ricchi, studiavano d'impedire che i poveri fossero dati in mano dei creditori e mettevano ostacolo all' arruolamento delle milizie. Pure la fazione patrizia vinceva, e stimandosi di aver già ricuperati gli onori perduti trascorreva a più audaci violenze. Roma correva pericolo di essere oppressa da una feroce oligarchia, di vedere ridotti i liberi cittadini a piccolissimo numero, e di perdere tutto il frutto degli sforzi passati. La via alle grandi glorie di Roma era chiusa, se non ponevasi pronto riparo a questo male gravissimo. Due arditi tribuni mossero la grande battaglia, nella quale contrastando con suprema energia sventarono i tristi disegni patrizi, rialzarono il cuore alla plebe col soccorrere ai materiali bisogni e col

(1) Festo S. V. Tribulorum.

(2) Livio VI, 27.

creare i diritti politici che togliessero l'odiosa distinzione degli ordini. Fu una delle più belle vittorie che mai conseguisse la santa causa dell'umanità e della giustizia.

I due prodi combattitori si chiamavano L. Sestio Laterano e Caio Licinio Stolone. La causa prima che li mosse a prendere le difese della giustizia oltraggiata è detto essere stata una contesa, un pettegolezzo partorito dalla vanità di una donna irritata (1). Ma in ciò l'antica narrazione ha sembiante di favola assurda, e non merita fede. Il certo è che Licinio e Sestio fatti tribuni della plebe proposero tre progetti di leggi in- Roma 378 tese a rimediare efficacemente i mali che opprimevano

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An. di

av. G. C. 376.

(1) Fabio Ambusto aveva due figliuole, la maggiore delle quali si maritò a Ser. Sulpicio nobile, e la minore a Licinio Stolone plebeo. Un giorno trovandosi quest'ultima a casa dell' altra fu spaventata dal littore di Sulpicio che secondo l'uso battè alla porta per annunziare il ritorno di esso dal foro. Allo spavento della giovane Fabia la sorella rispose con un sorriso di orgoglio, il quale fece sentire l'inferiorità del suo stato alla sposa di Licinio Stolone e le messe acuti stimoli nell'animo. Essa dopo essere rimasta mesta e confusa si lamentò col padre di averla maritata ad uomo senza dignità e a sè disuguale. Il padre la confortò a stare di buona voglia che otterrebbe ciò che ella bramava: e d'allora in poi si unì a lei per eccitare l'ambizione del genero il qualé acceso dal desiderio di levarsi in alto stato, propose le leggi che fecero chiaro il suo nome (Livio VI, 34; Zonara VII, 24). Su questo racconto prima di tutto è da notare che è inverisimile l'ignoranza e la maraviglia della giovane Fabia la quale, figlia di un patrizio stato tribuno consolare, avea potuto vedere nella casa paterna i fasci e i littori e tutte le ceremonie usate all' arrivo di un magistrato. Oltre a ciò il Niebhur ha mostrato l'indegnità di coloro che si stúdiano di attribuire ai fatti degli uomini grandi, volgari o bassi motivi. Egli osserva che contro ogni convinzione si è ripetuto fino all' età nostra che Lutero fece la riforma solo per la gelosia che agitava i frati del suo ordine, e specialmente perchè voleva sposare la monaca. La vile passione di degradar tutto produce siffatti giudizi. In questo modo il partito vinto giudicò la grande impresa di Licinio Stolone, cercandone la causa in un ridicolo aneddoto, in ciò che la vanità di una donna può offrire di più puerile Niebhur V, 2. Vedi anche Beaufort, De l'Incertude ec. II, 10.

Storia antica d'Italia Vol. II.

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la plebe. La prima riguardante i debiti ordinava che dal capitale avuto a prestanza si avesse a sottrarre ciò che era stato pagato a conto di usura e che il resto si restituisse al creditore a rate uguali in tre anni. Ma perchè questa restituzione, quantunque meno gravosa, fosse possibile, bisognava che i poveri ne avessero il modo. E a ciò provvedeva la seconda legge proposta, la quale mirando a mettere qualche riparo alle antiche usurpazioni poneva un limite al possesso dei beni dello stato e distribuiva ai poveri quello che i ricchi possedevano di soverchio. Essa ordinava che niuno potesse possedere più di cinquecento jugeri di terre pubbliche (1), e che a ogni cittadino povero se ne distribuissero sette jugeri. Dopo gl' interessi materiali venivano gl'interessi politici e la terza legge portava, che tolti via i tribuni consolari si ristabilisse la dignità dei consoli al modo antico, e che un plebeo dovesse seder sempre in quell' ufficio supremo (2). Questa legge aggiunta alle altre dava potenza grande alla plebe che non solo aveva terre e modo di liberarsi dai debiti, ma otteneva gli onori politici e la vera libertà da cui veniva atterrata la barriera che finquì aveva fatto di Roma due distinte città (3) abitate da due popoli rivali e nemici.

(1) Fu creduto da molti che alle proprietà private non al possesso delle terre pubbliche la legge volesse mettere un limite: ma quanto essi s'ingannassero fu mostrato da parecchi scrittori moderni i quali vittoriosamente provarono che Licinio Stolone non mirò ad altro che a impedire che le terre dello stato fossero occupate da pochi. Vedi tra gli altri Niebhur V 17; Long, Classical. Museum vol. II, pag. 307 e III, pag. 78; Macè loc. cit. pag. 215. Questa legge che il Niebhur fece prova di rìcomporre in tutti i suoi articoli, divenne per Roma la base del diritto agrario futuro.

(2) Livio VI 35; Varrone De re rustica I, 2; Columella I, 3; Appiano, De Bell. Civil. 1, 7.

(3) Livio VI, 40.

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