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aver trattato fieramente i nemici quando poteva ottenere da essi buone e gloriose condizioni di pace, e lo dà come esempio delle sciagure a cui conduce il soverchio fidare nella buona fortuna. Altri andarono anche più innanzi dicendo che questo Romano colla sua imprudenza e arroganza privò sè della grande lode che avrebbe potuto acquistare se fosse stato più umano e gli danno carico di avere insultato alle calamità degli afflitti, di aver messo colla sua folle superbia a gran rischio la patria, e di essere stato causa che perissero centomila uomini nella continuazione della guerra che egli avrebbe potuto finire gloriosamente (1).

Comecchè sia, ora Regolo veniva a Roma coll'ambasciata cartaginese spedita a chieder la pace, col giuramento di tornare alla cattività se non riuscisse a conseguire l'intento. Giunto presso alle porte non volle entrare in città dicendo che non era più cittadino romano: e quando il senato uscito ad incontrarlo fuori delle mura gli chiese il suo avviso sulla pace proposta e sul cambio dei prigionieri, egli con grande animo sacrificando se stesso consigliò non si accettasse nè l' una nè l'altra perchè non erano utili a Roma, e colla sua costanza eccitò i titubanti a proseguire gagliardamente la guerra. Invano alcuni fecero prova di ridurlo ad aver compassione di sè: ei rispose che non poteva più esser salvato perchè i nemici gli avevano amministrato un lento veleno che presto porrebbe fine ai suoi giorni. Nulla potè vincere quella inflessibile anima. Partì senza lasciarsi intenerire dalle preghiere degli amici nè dalle lacrime della moglie e dei figli quantunque sapesse che a Cartagine, per aver tradito

(1) Diodoro XXIII, Fragm. 12 e 15.

le speranze di essa, lo aspettava un fine crudele (1). Dicono che fu messo in oscura prigione, e poi tratto repentinamente di là ed esposto ai raggi di sole ardentissimo dopo avergli tagliato le palpebre. Avvi chi lo fa finire di vigilia rinchiuso con un elefante che disturbavagli i sonni. Secondo alcuni finì crocifisso: secondo altri perì rinchiuso in un'arca di legno irta di punte di ferro (2).

Posto anche che questi barbari trattamenti fossero veri non istava bene ai Romani il levarne troppo alti lamenti, dopochè essi avevano trattato crudelmente anche i nemici più generosi e magnanimi come Ponzio sannite. Ma non facendo di ciò parola Polibio, la critica ne concluse (3) che il racconto fosse una pura finzione inventata, parte per fare onore al martire romano, e parte per gettare onta e odio sopra i nemici, e giustificare i trattamenti crudeli fatti patire ai prigionieri cartaginesi abbandonati alle vendette della moglie e dei figli di Regolo (4).

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(2) Livio Epitome XVIII; Cicerone in Pisonem 19; Floro II, 2; Seneca De Providentia cap. 3 e Epist. 88; Diodoro XXIII, Fragm. 16; Gellio VI, 4; Zonara VIII, 15; Aurelio Vittore De Vir. illustr. 40.

(3) Niebhur VI, 382; e Lectures on the roman history translated by Schmitz, London 1848, vol. I, pag. 128.

(4) Diodoro (XXIV, Fragm. 12) dice che la moglie e i figli di Regolo rinchiusero i prigionieri in luogo angustissimo ove per cinque giorni

Il fatto di Panormo, comecchè non ponesse fine alla guerra, fu l'ultima grande battaglia terrestre. Quella segnalata vittoria avea reso il cuore ai Romani i quali perciò ripresero il pensiero di tornare al mare, e messa in ordine una nuova flotta mossero per la Sicilia con 200 navi e quattro legioni. I Cartaginesi si erano ridotti all'estremità occidentale dell'isola, e Drepano e Lilibeo erano i soli punti importanti in cui si tenevano. Qui concentrarono tutti i loro sforzi, e a Lilibeo trasportarono gli abitatori e il presidio di Selinunte distrutta (1). La città di Lilibeo corrispondente all'odierna Marsalla sorgeva sul promontorio del medesimo nome e forte per sito e per arte dopo avere resistito più mesi ai potenti assalti di Pirro resisteva ora per dieci anni ai Romani che l' assediavano con 200 navi e con 140 mila uomini (2). Vi erano mura fortissime e un fosso profondo e lagune dal mare per le quali non potevasi entrare nel porto senza molta perizia dei luoghi. I Cartaginesi vi si rinchiusero in gran numero preparati a difendersi fino agli estremi. Imilcone vi fece una sapiente e vigorosa difesa, mentre Aderbale e Cartalone guardavano Drepano. I Romani usarono gli strumenti e le macchine dovute alla scienza che Archimede insegnava a Siracusa (3). Gettarono dighe a traverso ai fossi, si sforzarono di chiuder con sassi l'en

furono lasciati senza alcun cibo. Di che Bodostori mori. Il suo compagno Amilcare che avea più forza resistè, ma invano tentò di piegare la donna a pensieri più umani. Ella lo tenne rinchiuso col cadavere di Bodostori e gli dava tanto cibo quanto bastasse a non morire e a fargli sentire la sua sciagura. Ma risaputasi la cosa dai tribuni del popolo l'infelice fu liberato.

(1) Diodoro XXIV, Frag. 1.

(2) Diodoro loc. cit.

(3) Niebhur VI, 387.

trata del porto per impedire gli aiuti di fuori: ma il mare era troppo profondo, e ogni materia era portata via dall'impeto dei venti e dell' onde. Martellarono coll' ariete le mura e le torri, e con tutti i mezzi spingevano gagliardamente l'assedio. Al che i difensori rispondevano con pari ardore. Vi erano lotte micidialissime. Fu sventato il tentativo dei mercenarii di dare per tradimento la città agli assedianti. Di più la città ad onta dello stretto assedio potè aver soccorso di fuori. Un Annibale con estrema audacia venne con 50 navi a soccorrerla di uomini e di vettovaglie, e riuscì a entrare nel porto a traverso alla flotta nemica. Altri uomini arditi ne imitaron l'esempio ed entrarono e uscirono con eguale successo dando contezza al governo cartaginese di ogni particolarità dell' assedio, e confondendo i Romani colla loro audacia e coll' impero che avevano sui venti e sulle onde (1). Di che gli assediati prendendo più cuore fecero prova di incendiare le macchine nemiche uscendo in 20 mila uomini. Fu combattuto a corpo a corpo, a drappello a drappello con prove di valore estremo da ambe le parti: e alla fine gli assalitori doverono sonare a raccolta e tornare in città. Ma le macchine salvate ora, non la scamparono a lungo. In un nuovo assalto o in una sorpresa furono distrutte dal fuoco aiutato da un uragano (2).

Gli assediati ripararono le loro fortificazioni e si disposero a resistenza più vigorosa. Dall' altro lato i Romani si trovavano a grandi difficoltà, e furono costretti a cambiare in blocco l'assedio. Molti uomini erano caduti negli assalti; diecimila erano morti di

(1) Polibio I, 11.

(2 Polibio loc. cit.; Diodoro loc. cit.

Storia antica d'Italia. Vol. II.

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fame e di malattie (1). Ma Roma veniva al loro soccorso con sforzi maggiori mandando con nuove genti il console Claudio Pulcro. Egli credevasi destinato a riparare le perdite e gli errori di quelli che avevano comandato prima di lui. Era figlio del famoso censore, e aveva nell' anima tutta la superbia claudiesca. Cupido di far parlare di sè, risolvè di assalire le navi cartaginesi che stavano nel porto di Drepano. Invano sembra che gli ufiziali lo facessero accorto del pericolo: invano gli auguri lo avvertirono che i presagii erano tristi e che i polli non volevan mangiare. Ei li fece gettare nelle onde dicendo che se non volevan mangiare bevessero (2), mostrando così che si burlava degli avvertimenti degli Dei, come sdegnava quelli degli uomini.

Ma lo sconforto era entrato nei petti dei suoi dopo quella empietà ed erano incapaci di vincere. Aderbale che comandava le navi nemiche non si lasciò sorprendere nel porto di Drepano, ma tiratosi al largo si fece incontro al presuntuoso avversario. In questi scontri navali non si parla più dei terribili corvi che fecero vincitori i Romani alla battaglia di Mile: e il silenzio ne fa supporre che i Cartaginesi avessero trovato modo a rendere inutile quella invenzione. Claudio Pulcro fu pienamente disfatto. Novantatre navi furono prese o sommerse, o rotte agli scogli: uccisi 8 mila uomini e 20 mila prigioni (3). Poscia i Cartaginesi continuando con prontezza ed energia si studiarono di raccogliere dalla vittoria quanti più frutti potevano. A Panormo

(1) Diodoro loc. cit.

(2) Livio Epitome XIX; Cicerone De Nat. Deor. II, 3; Valerio Massimo I, 4, 3.

(3) Polibio loc. cit.; Orosio IV, 10.

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